venerdì 16 settembre 2016

The Neon Demon (The Neon Demon, 2016) di Nicolas Winding Refn

Jesse è una giovane adolescente, bellissima e dall’aspetto innocente, che sbarca a Los Angeles inseguendo il sogno di diventare modella. La sua carica vitale e la sua sensualità virginale abbagliano tutti coloro che la incontrano, facendola diventare ben presto una stella emergente nell’ambiente della moda. Ma oltre all’ammirazione dei fotografi e dei magnati del settore, la nostra finirà per suscitare anche l’invidia di due colleghe più navigate che vedono in lei una temibile rivale, resa imbattibile dalla forza prorompente della gioventù. L’incontro con le due perfide donne e con l’ambigua truccatrice Ruby, che fa di tutto per mostrarsi come premurosa amica, faranno cadere Jesse in un pericoloso abisso di iniquità. Ipnotico horror metaforico di Refn, visivamente potente e ideologicamente oscuro, che si avvale di un’estetica algida e ultra patinata e che si presenta, sin dalla prima straniante inquadratura, come un film bifronte, ambivalente, spiazzante, basato sui contrasti. Il contrasto tra essere e apparire, tra forma e sostanza, tra bellezza esteriore e malvagità interiore, tra la pulizia asettica delle immagini e le torbide pulsioni che muovono le azioni delle protagoniste. Il suo aspetto più evidente di feroce critica al mondo della moda, inevitabilmente mostrato come il tripudio del vacuo e del falso, è solo la punta dell’iceberg di un coacervo di spunti, allegorie e suggestioni che però non vengono mai realmente approfondite dal regista danese, che, forse volutamente, si sofferma alla patina e sceglie di mostrare, ma non di analizzare, il cuore nero della vicenda. Passiamo quindi attraverso una carrellata di immagini fulgide dal cromatismo esasperato, tra silenzi e sonorità martellanti, e veniamo immersi in un fosco labirinto che passa in veloce rassegna atmosfere pop art (con rimandi alle sperimentazioni con i colori del nostro Mario Bava), richiami fiabeschi (la strega di Biancaneve), connessioni mitologiche (Narciso), influenze storiche (il sanguinario mito della Báthory), accostamenti dissonanti (bellezza e morte), influssi cinematografici (De Palma, Lynch), il tutto con uno stile visivo pedissequamente conforme a una pagina di Vogue. C’è, insomma, troppo e troppo poco al tempo stesso, in questo film sul vuoto che quasi si compiace di essere, in fin dei conti, altrettanto vuoto. Il finale splatter, che potrà risultare disturbante ai deboli di stomaco, ha un evidente intento metaforico, i cui temi non sono per nulla ardui da capire: la pericolosità della bellezza e il vampiresco mondo della moda che cela il suo lato oscuro sotto una coltre scintillante e finisce per cannibalizzare, fagocitare e rigurgitare le sue protagoniste, le modelle, sacrificandole (e plasmandole) come carne da macello sull’altare del profitto. E ancora: le spietate leggi dello showbiz, l’orrore di un mondo basato sul futile e il feticismo voyeuristico di una società guardona, perennemente affamata di violare indecentemente le vite degli altri. Peccato che tutto resti appena in superficie e non si vada mai oltre il manierismo simbolico tipico dell’autore, approfondendo, ad esempio, gli aspetti più intimi della storia come il chiaro intento delle perfide modelle di “rubare” alla protagonista non solo la bellezza, non solo la gioventù, ma anche quella femminilità prorompente e rigogliosa (che afferma il potere procreativo della donna attraverso il rito del sangue mestruale), contrapposta ad un climaterio indotto da anni di diete disumane e costrizioni repressive in nome dell’idolatria del corpo, conformemente alle leggi dell’industria dell’apparire. Altre notevoli sfumature che avrebbero meritato un più fertile approfondimento sono: il relativismo del voyeurismo dello sguardo (espresso dal sottile gioco di specchi nel primo incontro tra Jesse e Ruby, che rende incerti i ruoli di spione e spiato) e l’ambiguità intrinseca delle modelle (fino a che punto sono vittime e fino a che punto sono complici del perverso meccanismo che finisce per annientarle, rendendole un vuoto simulacro di vanità). Le bordate di fischi ricevute al Festival di Cannes sono sicuramente ingenerose per questo film affascinante ma incompiuto, stimolante ma irrisolto. In puro stile Refn.

Voto:
voto: 3,5/5

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