Leopold
Kessler è un americano di origine tedesche che torna nella sua terra natia
subito dopo la fine del secondo conflitto mondiale. In un paese allo sfacelo,
distrutto dai bombardamenti e messo in ginocchio dal disastro bellico, egli troverà
lavoro come conduttore ferroviario di vagoni letto. Ma il suo tentativo di
rendersi utile alla causa della ricostruzione germanica si scontrerà con una
serie di disavventure che lo porteranno nel mirino di un gruppo di indomiti
resistenti nazisti, chiamati “lupi mannari”, che si oppongono all’invasione dei
vincitori americani. Controverso dramma storico metaforico di Lars von Trier
che riflette, amaramente, sulla sconfitta di una nazione (la Germania) ma anche di un
continente (l’Europa), condannato dalla miriade di contrasti e contraddizioni
interne che ne minano l’unità e lo spingono verso il baratro
dell’autodistruzione. L’evidente esilità della storia, raccontata con un
registro che svaria dal melò all’ironico, passando anche per il thriller, viene
riscattata dal genio registico dell’autore che qui dà fondo a una serie di
mirabilie estetiche, con un utilizzo espressionista della fotografia che cita i
grandi classici (Lang, Welles) o i registi da lui amati (Fassbinder). Girato in
un bianco e nero fortemente contrastato che muta costantemente i suoi toni,
virando a volte anche nel colore desaturato, il film si avvale di sequenze
straordinarie come quella della messa di Natale celebrata nella chiesa senza
tetto, sotto la neve che cade. Von Trier sperimenta sulle immagini attraverso
deformazioni prospettiche, riprese sghembe, utilizzo di sovrimpressioni, dando
vita a una pellicola che è un tripudio di contrasti: tra forma e contenuto, tra
manierismo e concretezza, tra lo stile che celebra l’espressionismo tedesco e
la materia aspramente antigermanica. In accordo al suo essere, sempre e
comunque, un geniale provocatore, l’autore fa sfoggio del suo ruvido talento
quasi giocando con il pubblico e finendo per dividere la critica tra osannanti
e detrattori rispetto a questo suo opus
numero quattro, che fu insignito del Premio della Giuria al Festival di Cannes
del 1991. E come spesso accade con le opere del discusso regista danese, anche
questo film si può odiare o amare, ma è difficile negarne lo spessore artistico
e la mordace esuberanza tecnica.
Voto:
Nessun commento:
Posta un commento