Sul
finire dell’800 la giovane americana Isabel Archer approda in Inghilterra dove
eredita un ingente patrimonio dallo zio defunto. Corteggiata da tutti, la
donna, avida di esperienze e di libertà, rifiuta ogni proposta amorosa e decide
di partire per l’Italia, provocando uno scandalo in famiglia. Giunta a Firenze
cade nella rete di Gilbert Osmond, intellettuale snob dai modi raffinati che
mira al suo denaro. Tratto dal romanzo omonimo di Henry James, questo aspro
melodramma in chiaroscuro della Campion è un denso ed elegante affresco della
condizione femminile nel XIX secolo, in cui i punti cardine come infelicità, discriminazione,
emancipazione e ricerca di una propria indipendenza al di là della figura
maschile, guardano anche all’oggi. Maestoso nella ricostruzione storico
ambientale, esteticamente sontuoso nella splendida fotografia ovattata e
nell’uso “pittorico” delle luci, splendidamente recitato da un cast
straordinario (Nicole Kidman, John Malkovich, Barbara Hershey, Shelley Winters,
Martin Donovan, Mary-Louise Parker, Viggo Mortensen), questo possente ritratto
di lussuosa opulenza e di silente disperazione è stato uno dei film più
sottovalutati degli anni ’90. Probabilmente a causa dell’approccio irrequieto e
spregiudicato della talentuosa regista neozelandese, che qui ci regala un nuovo
intenso universo femminile senza mai rinunciare all’estro dei suoi tocchi
bizzarri, pur in una messa in scena di stampo rigidamente classico. E’
d’obbligo citare, in tal senso, la sequenza in cui la protagonista immagina un
rapporto sessuale con ciascuno dei suoi tre pretendenti o il suo “Grand Tour” europeo sintetizzato con lo
stile delle vecchie comiche. Il finale aperto, che lasciò perplessi la maggior
parte dei critici, è un’altra pennellata di gran classe, all’insegna di una
fertile ambiguità. Da rivalutare.
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