Un’isola.
Un lago pieno di case galleggianti. Qui vive Hee-Jin, barcaiola di giorno e
prostituta di notte. Qui arriva Hyn-Shik, ex poliziotto in fuga da un crimine
passionale e con intenzioni suicide. I due s’incontrano e si amano di un amore
intenso e disperato, creando un legame di bollente ardore e di mutua dipendenza
psicologica. E niente sarà più lo stesso. Inquietante trattato di
psicopatologia amorosa, carico di malia oscura e di potenti simbolismi, diretto
con aspra crudezza da Kim Ki-duk. E’ impressionante il contrasto tra le
atmosfere lente, liquide, avvolgenti, suggerite dalle particolari ambientazioni
acquatiche, e la violenza disturbante di alcune scene che metteranno a dura
prova gli spettatori dallo stomaco debole. Enigmatico e duro, questa metafora
amara della solitudine esistenziale riporta la relazione uomo-donna a uno stato
primordiale, denso di istintualità feroci e di indulgenze sadiche, con l’atto
sessuale che diventa un ultimo solenne gesto con cui trovare rifugio nel corpo
dell’altro. La scarnificazione narrativa è compensata dalla potenza delle
immagini, che si alternano ora evocative ora scioccanti, con i dialoghi ridotti
al minimo per suggerire il concetto di vacuità della parola in un mondo
annichilito dal malessere interiore. Le suggestioni che attingono al patrimonio
del mito si condensano nel flusso del racconto attraverso un andamento ciclico
fondato sulle contrapposizioni: amore e morte, dominio e sottomissione,
tenerezza e brutalità. Aspro e puro nella sua severa crudeltà (che però non è
mai gratuita perché finalizzata alla sublimazione metaforica), è un film ostico
e austero, stilisticamente sontuoso e pervaso da tetra bellezza. Un film che
difficilmente potrà essere apprezzato dal pubblico poco avvezzo ai ritmi (e
agli eccessi) di un certo cinema orientale.
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