“Walt”
Kowalski è un ottantenne di origine polacca reduce della guerra di Corea, ex
operaio della Ford in pensione, rimasto da poco vedovo dell’amata moglie. “Walt”
è un uomo burbero, astioso verso il mondo, cattolico ma pieno di dubbi sulla
fede, patriota e razzista, insofferente rispetto alla realtà multietnica del
quartiere popolare in cui vive. Malato ai polmoni e ostile anche verso i suoi
due figli, che vorrebbero metterlo in una casa di riposo e che sembrano più interessati
alla sua eredità che alla sua persona, “Walt” ha solo due interessi positivi:
la passione per la sua vecchia auto (una Ford Gran Torino del 1972 che conserva
come un gioiello) ed il rapporto goliardico, basato su un affettuoso turpiloquio,
con il barbiere del quartiere, amico di una vita. L’incontro casuale con il
giovane Thao, asiatico di etnia Hmong vessato da un gruppo di bulli vietnamiti,
e con la sua premurosa famiglia, aprirà una breccia nella scorza dura di “Walt”,
risvegliando il suo puro ideale di indignazione contro le ingiustizie commesse
dagli arroganti a danno dei più deboli. L’opus
n. 31 di Eastwood regista è un piccolo grande film, intimo e denso, di
complessa stratificazione, di classica trasparenza e di legittima saldezza
morale. Garbato e complesso alla maniera del regista è un felice compendio di
temi importanti, forse troppi per un film solo: la vecchiaia, il razzismo, la
fede, il bullismo, la morte, la violenza urbana, la difficile integrazione
reciproca in un contesto multirazziale. Con la consueta lievezza del tocco e
classicità dello stile, senza però mai perdere in densità narrativa e spessore
tematico, l’autore fa coesistere abilmente tragedia e ironia, odio e amore,
asocialità e rigore etico, brutalità e tenerezza, passatismo e fiducia nel domani, condanna
della violenza e necessità di ricorrere ad essa. Nel cast, oltre a Clint
Eastwood nel ruolo del granitico protagonista, segnaliamo Bee Vang, Ahney Her e
John Carroll Lynch. Attraversato da un’ombra funerea per tutta la sua durata,
questo film importante e necessario ci commuove senza mai risultare patetico e
ci accompagna, con sommessa fierezza, verso l’unico finale possibile, che si
erge come una sorta di nostalgico commiato. Il commiato di Eastwood attore dalla
sua stessa leggenda di duro cinematografico per antonomasia. Non c’è dubbio che
il personaggio di Kowalski (emblematico già dal nome che rimanda a Tennessee
Williams) sia il simbolo ed il sunto di tutti i duri interpretati da Eastwood
sul grande schermo e che la sua parabola di formazione e redenzione sia il
malinconico addio del grande regista-attore (non privo di pungente autoironia)
ad un certo tipo di antieroi che hanno caratterizzato il suo passato. Ma quando
il vecchio leone Clint imbraccia il fucile e digrigna “vattene dal mio prato!” al giovane bullo vietnamita, un brivido
antico ci percorre la schiena e il tempo sembra davvero essersi fermato per un
istante.
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