lunedì 27 marzo 2017

Faust (Faust, 2011) di Aleksandr Sokurov

Il dottor Faust, medico acuto e tormentato, si fa tentare da Mefistofele, demonio in forma di vecchio laido, che lo convince a barattare la sua anima in cambio di sapienza illimitata e di un momento di piacere infinito, che si concretizza nella giovane Margarete, da sempre oggetto del desiderio dell’uomo. Memorabile capolavoro di Sokurov, liberamente ispirato alla celebre opera omonima di Johann Wolfgang von Goethe, che conclude in apoteosi la sua tetralogia sul potere, iniziata con Moloch (1999), dedicato a Hitler, proseguita con Toro (2000), dedicato a Lenin, e poi ancora con Il Sole (2005), dedicato a Hirohito. Dopo tre figure storiche realmente esistite, tutte portatrici di un’incarnazione malata ed egocentrica del concetto di potere, al punto di farlo collassare su se stessi, l’autore russo sceglie di rileggere la leggendaria opera del “Faust”, simbolo leggendario della brama di grandezza del genere umano. Va subito detto che l’adattamento operato da Sokurov del testo di Goethe è (volutamente) infedele, artistico, possente, visionario. Un’indimenticabile esperienza sensoriale e sensuale, fisica e straniante, pregna di materialismo e di spiritualità, una fantasmagorica epica del grottesco (stilisticamente resa in formato 4:3 con una “putrida” fotografia verdognola) che dà forma ad un Medioevo sporco e onirico, livido e tetro, in cui terribile e sublime convivono in unico corpo lacero che ambisce alle altezze del metafisico ma è incatenato al salmastro terragno dalla sua stessa gravità. La visione del regista è unica, intrigante, geniale, un apologo solenne pervaso da una mefitica atmosfera di morte, costantemente sul filo sottile tra orrido e ridicolo, latore di un ghigno beffardo che vuol essere, nello stesso tempo, derisione della pochezza umana, presa d’atto del tragico paradosso che è la vita ed amara consapevolezza del relativismo terreno, che nega, inesorabilmente, ogni possibile aspirazione di assoluto. Faust è anche un film ostico e faticoso, teatrale e barocco, deforme e deformato, una visione terribile e potente che per certi versi ricorda le opere pittoriche di Bruegel il vecchio. Gli ambienti fangosi, i colori marcescenti, il putrido lezzo che quasi deborda dalla pellicola, ci immergono fisicamente nel mondo in putrefazione immaginato dal regista, un ammasso di corpi e di concetti danzanti in una disturbante sinfonia paradossale che oscilla tra iperuranio e Golconda, che ora sembra celebrare il tripudio dello spirito umano (attraverso le sue altezze filosofiche) e, subito dopo, ne sancisce il requiem, declinato attraversi un’estetica dell’orrido così ricercata da sublimarsi in un’austera poesia tragica che guarda dritta al mito. Questa scelta stilistica (e tematica) così arditamente contrastata è evidente già dalla straordinaria sequenza d’apertura, con la macchina da presa che parte dall’alto e poi piomba, in volo tra le nubi, nel lurido laboratorio in cui Faust sta smembrando un cadavere per analizzarlo. Ambizioso, ammaliante e straripante d’inventiva, il film procede “faustianamente” verso il magistrale finale, girato tra i geyser islandesi, che ci regala, probabilmente, la più alta e terrificante rappresentazione dell’inferno mai vista sul grande schermo. Premiato con il Leone d’Oro al Festival del Cinema di Venezia e osannato dalla critica in modo plebiscitario, è uno dei più alti capolavori del nuovo millennio. Un’odissea umana così densa e disarmante che viene quasi da chiedersi se lo stesso Sokurov non abbia stipulato un proprio patto col diavolo per realizzare questo film.

Voto:
voto: 5/5

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