Il
dottor Faust, medico acuto e tormentato, si fa tentare da Mefistofele, demonio
in forma di vecchio laido, che lo convince a barattare la sua anima in cambio
di sapienza illimitata e di un momento di piacere infinito, che si concretizza
nella giovane Margarete, da sempre oggetto del desiderio dell’uomo. Memorabile
capolavoro di Sokurov, liberamente ispirato alla celebre opera omonima di
Johann Wolfgang von Goethe, che conclude in apoteosi la sua tetralogia sul potere,
iniziata con Moloch (1999), dedicato
a Hitler, proseguita con Toro (2000),
dedicato a Lenin, e poi ancora con Il
Sole (2005), dedicato a Hirohito. Dopo tre figure storiche realmente
esistite, tutte portatrici di un’incarnazione malata ed egocentrica del
concetto di potere, al punto di farlo collassare su se stessi, l’autore russo
sceglie di rileggere la leggendaria opera del “Faust”, simbolo leggendario
della brama di grandezza del genere umano. Va subito detto che l’adattamento
operato da Sokurov del testo di Goethe è (volutamente) infedele, artistico,
possente, visionario. Un’indimenticabile esperienza sensoriale e sensuale,
fisica e straniante, pregna di materialismo e di spiritualità, una
fantasmagorica epica del grottesco (stilisticamente resa in formato 4:3 con una
“putrida” fotografia verdognola) che dà forma ad un Medioevo sporco e onirico,
livido e tetro, in cui terribile e sublime convivono in unico corpo lacero che
ambisce alle altezze del metafisico ma è incatenato al salmastro terragno dalla
sua stessa gravità. La visione del regista è unica, intrigante, geniale, un
apologo solenne pervaso da una mefitica atmosfera di morte, costantemente sul
filo sottile tra orrido e ridicolo, latore di un ghigno beffardo che vuol
essere, nello stesso tempo, derisione della pochezza umana, presa d’atto del
tragico paradosso che è la vita ed amara consapevolezza del relativismo
terreno, che nega, inesorabilmente, ogni possibile aspirazione di assoluto. Faust è anche un film ostico e faticoso,
teatrale e barocco, deforme e deformato, una visione terribile e potente che
per certi versi ricorda le opere pittoriche di Bruegel il vecchio. Gli ambienti
fangosi, i colori marcescenti, il putrido lezzo che quasi deborda dalla
pellicola, ci immergono fisicamente nel mondo in putrefazione immaginato dal
regista, un ammasso di corpi e di concetti danzanti in una disturbante sinfonia
paradossale che oscilla tra iperuranio e Golconda, che ora sembra celebrare il
tripudio dello spirito umano (attraverso le sue altezze filosofiche) e, subito
dopo, ne sancisce il requiem, declinato attraversi un’estetica dell’orrido così
ricercata da sublimarsi in un’austera poesia tragica che guarda dritta al mito.
Questa scelta stilistica (e tematica) così arditamente contrastata è evidente
già dalla straordinaria sequenza d’apertura, con la macchina da presa che parte
dall’alto e poi piomba, in volo tra le nubi, nel lurido laboratorio in cui
Faust sta smembrando un cadavere per analizzarlo. Ambizioso, ammaliante e
straripante d’inventiva, il film procede “faustianamente” verso il magistrale
finale, girato tra i geyser islandesi, che ci regala, probabilmente, la più
alta e terrificante rappresentazione dell’inferno mai vista sul grande schermo.
Premiato con il Leone d’Oro al Festival del Cinema di Venezia e osannato dalla
critica in modo plebiscitario, è uno dei più alti capolavori del nuovo
millennio. Un’odissea umana così densa e disarmante che viene quasi da
chiedersi se lo stesso Sokurov non abbia stipulato un proprio patto col diavolo
per realizzare questo film.
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