Un
uomo e una donna fanno l’amore con grande trasporto ma, intanto, il loro
piccolo figlio esce dalla culla, si arrampica sul davanzale della finestra,
affascinato dalla neve che cade, e muore precipitando all’esterno. La coppia
viene distrutta dal tragico evento e lui, psicoterapeuta, decide di portare la
donna in un isolato chalet nel bosco per farle superare la crisi depressiva e
le sue paure recondite, legate all’idea di malvagità della natura. Ma il percorso
terapeutico si trasforma presto in un massacro psicofisico. Oscuro dramma
allegorico di Lars von Trier, sotto forma di incubo malsano di tetra malia,
dedicato dal regista ad Andrej Tarkovskij ma evidentemente influenzato anche da
altri grandi Maestri della settima arte (Lynch, Bergman, Kubrick). E’ il film
maledetto dell’autore, scandalo annunciato della stagione 2009, che ha diviso
la critica alla sua presentazione al Festival di Cannes suscitando orrore,
scherno o ammirazione. Per ammissione stessa di von Trier, provocatore
impudente nato per scandalizzare la morale borghese, quest’opera estrema (e
indubbiamente coraggiosa) è stata la sua personale “terapia” per uscire da un
lungo periodo di depressione personale. Diretto con enfasi anarchica e con stile
ipnotico (che trova il suo tripudio nella tetra fotografia di Anthony Dod
Mantle e nei cupi ambienti che emanano atmosfere “malate”), è un’opera
controversa e crudele, impulsiva e feroce, un disperato trattato di
psicopatologia sadica (in forte odore di misoginia) che rilegge il rapporto
maschio-femmina sotto forma di reciproca tortura. E’ indubbio che i contenuti
siano scioccanti e che la violenza di alcune scene sia quasi insostenibile, ma
chi ha evocato presunti legami con il moderno sottogenere horror chiamato torture-porn l’ha fatta fuori dal vaso. In
realtà chi conosce lo stile sprezzante del regista (da sempre attratto da
storie al limite capaci di scandalizzare, pur di fornire uno scossone
intellettuale al pubblico) non si sorprenderà più di tanto. E’ altresì
inequivocabile la sottile architettura allegorica dell’opera, che può essere
letta come grande metafora nera sull’Avvento dell’Anticristo (evocato fin dal
titolo), attraversata da suggestioni misticheggianti, echi religiosi e da un
magma di elementi in antitesi, in un continuo gioco di opposti che si elidono.
Tutti gli elementi e i personaggi del film sono evidenti figure archetipe: i
due protagonisti (che non hanno nome ma vengono identificati come “Lui” e
“Lei”) sono una nuova versione della sacra famiglia, la Madonna è diventata una
strega, il bosco si chiama Eden, i re Magi sono i tre mendicanti latori di
sentimenti negativi, il Male (raffigurato come entità oggettiva) è parte
integrante della natura madre/matrigna, in un inestricabile groviglio di empie
pulsioni (come suggerito dalla memorabile sequenza del coito nell’intreccio di
rami e di corpi). L’eterna lotta tra i sessi diventa, quindi, territorio di
pascolo per il demonio, lo spirito maligno che risiede in tutte le cose
naturali, e il sesso (linguaggio istintivo e ancestrale) diventa un’arma di
offesa, uno strumento punitivo, un atto disperato che vuole unire piacere e
dolore, estasi e perversione, sperma e sangue, epurazione e annichilimento.
Straordinari i due attori protagonisti (Willem Dafoe e Charlotte Gainsbourg),
sottoposti dal regista-tiranno a una prova di estenuante impegno psicologico
per gli indubbi estremismi di alcune scene. Entrambi hanno aderito con assoluto
mimetismo ai rispettivi ruoli, dando vita a una sfida recitativa che viaggia in
parallelo alla guerra psicologica e simbolica tra i due personaggi, novelli
Adamo ed Eva persi in un tenebroso Eden sotto il giogo del Male. E, manco a
dirlo, la sfida è stata vinta dalla Gainsbourg, premiata al Festival di Cannes
con il prestigioso Prix d'interprétation
féminine. Non si può non ricordare come la tendenza di Lars von Trier di
spingere le sue attrici fino ai limiti estremi (non senza compiacimento sadico)
ci abbia spesso regalato interpretazioni di straordinario livello, portando le
stesse ai vertici artistici della loro carriera. E, non a caso, quasi tutte le
“sue” attrici non hanno mai voluto ripetere l’esperienza, a suo modo
traumatica, con il regista. Esistono due versioni circolanti della pellicola:
una di 104 minuti, denominata “cattolica”, un po’ alleggerita nelle sequenze
shock, e la versione integrale di 109 minuti, denominata “protestante”. Al di
là delle esagerate polemiche (che, come sempre, finiscono per giocare a
vantaggio dei produttori) va chiaramente detto che, come spesso accade in caso
di opere “maledette” dirette da grandi autori, lo stile tutto soccorre e la
franchigia dell’artista che si deve ai grandi (di cui von Trier fa parte) fa sbiadire
le accuse e sublima la crudezza dei contenuti in una più alta valenza
allegorica di chiaro intento artistico. Lo straniante prologo in bianco e nero,
con l’atto sessuale esplicito sulle note classiche di “Lascia ch’io pianga” di Georg Friedrich Händel, è un momento di
stordente turbamento visivo, in pura scuola von Trier. Questo film diseguale e
ardito, atroce e radicale, ma non privo di elementi di pura genialità
visionaria, è un pugno allo stomaco che stimola la mente, elude la morale,
titilla l’istinto e provoca una vertigine emotiva nello spettatore. Diviso in
quattro capitoli (“Pena”, “Dolore (il caos regna)”, “Disperazione”, “I tre mendicanti”), più un prologo e un epilogo, è un’opera
disturbante, indimenticabile e definitiva. La tragica chiosa di un percorso
umano ed artistico da cui potrà solo uscire un nuovo Lars von Trier. Forse
migliore, forse peggiore, ma inevitabilmente diverso.
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