venerdì 31 marzo 2017

Antichrist (Antichrist, 2009) di Lars von Trier

Un uomo e una donna fanno l’amore con grande trasporto ma, intanto, il loro piccolo figlio esce dalla culla, si arrampica sul davanzale della finestra, affascinato dalla neve che cade, e muore precipitando all’esterno. La coppia viene distrutta dal tragico evento e lui, psicoterapeuta, decide di portare la donna in un isolato chalet nel bosco per farle superare la crisi depressiva e le sue paure recondite, legate all’idea di malvagità della natura. Ma il percorso terapeutico si trasforma presto in un massacro psicofisico. Oscuro dramma allegorico di Lars von Trier, sotto forma di incubo malsano di tetra malia, dedicato dal regista ad Andrej Tarkovskij ma evidentemente influenzato anche da altri grandi Maestri della settima arte (Lynch, Bergman, Kubrick). E’ il film maledetto dell’autore, scandalo annunciato della stagione 2009, che ha diviso la critica alla sua presentazione al Festival di Cannes suscitando orrore, scherno o ammirazione. Per ammissione stessa di von Trier, provocatore impudente nato per scandalizzare la morale borghese, quest’opera estrema (e indubbiamente coraggiosa) è stata la sua personale “terapia” per uscire da un lungo periodo di depressione personale. Diretto con enfasi anarchica e con stile ipnotico (che trova il suo tripudio nella tetra fotografia di Anthony Dod Mantle e nei cupi ambienti che emanano atmosfere “malate”), è un’opera controversa e crudele, impulsiva e feroce, un disperato trattato di psicopatologia sadica (in forte odore di misoginia) che rilegge il rapporto maschio-femmina sotto forma di reciproca tortura. E’ indubbio che i contenuti siano scioccanti e che la violenza di alcune scene sia quasi insostenibile, ma chi ha evocato presunti legami con il moderno sottogenere horror chiamato torture-porn l’ha fatta fuori dal vaso. In realtà chi conosce lo stile sprezzante del regista (da sempre attratto da storie al limite capaci di scandalizzare, pur di fornire uno scossone intellettuale al pubblico) non si sorprenderà più di tanto. E’ altresì inequivocabile la sottile architettura allegorica dell’opera, che può essere letta come grande metafora nera sull’Avvento dell’Anticristo (evocato fin dal titolo), attraversata da suggestioni misticheggianti, echi religiosi e da un magma di elementi in antitesi, in un continuo gioco di opposti che si elidono. Tutti gli elementi e i personaggi del film sono evidenti figure archetipe: i due protagonisti (che non hanno nome ma vengono identificati come “Lui” e “Lei”) sono una nuova versione della sacra famiglia, la Madonna è diventata una strega, il bosco si chiama Eden, i re Magi sono i tre mendicanti latori di sentimenti negativi, il Male (raffigurato come entità oggettiva) è parte integrante della natura madre/matrigna, in un inestricabile groviglio di empie pulsioni (come suggerito dalla memorabile sequenza del coito nell’intreccio di rami e di corpi). L’eterna lotta tra i sessi diventa, quindi, territorio di pascolo per il demonio, lo spirito maligno che risiede in tutte le cose naturali, e il sesso (linguaggio istintivo e ancestrale) diventa un’arma di offesa, uno strumento punitivo, un atto disperato che vuole unire piacere e dolore, estasi e perversione, sperma e sangue, epurazione e annichilimento. Straordinari i due attori protagonisti (Willem Dafoe e Charlotte Gainsbourg), sottoposti dal regista-tiranno a una prova di estenuante impegno psicologico per gli indubbi estremismi di alcune scene. Entrambi hanno aderito con assoluto mimetismo ai rispettivi ruoli, dando vita a una sfida recitativa che viaggia in parallelo alla guerra psicologica e simbolica tra i due personaggi, novelli Adamo ed Eva persi in un tenebroso Eden sotto il giogo del Male. E, manco a dirlo, la sfida è stata vinta dalla Gainsbourg, premiata al Festival di Cannes con il prestigioso Prix d'interprétation féminine. Non si può non ricordare come la tendenza di Lars von Trier di spingere le sue attrici fino ai limiti estremi (non senza compiacimento sadico) ci abbia spesso regalato interpretazioni di straordinario livello, portando le stesse ai vertici artistici della loro carriera. E, non a caso, quasi tutte le “sue” attrici non hanno mai voluto ripetere l’esperienza, a suo modo traumatica, con il regista. Esistono due versioni circolanti della pellicola: una di 104 minuti, denominata “cattolica”, un po’ alleggerita nelle sequenze shock, e la versione integrale di 109 minuti, denominata “protestante”. Al di là delle esagerate polemiche (che, come sempre, finiscono per giocare a vantaggio dei produttori) va chiaramente detto che, come spesso accade in caso di opere “maledette” dirette da grandi autori, lo stile tutto soccorre e la franchigia dell’artista che si deve ai grandi (di cui von Trier fa parte) fa sbiadire le accuse e sublima la crudezza dei contenuti in una più alta valenza allegorica di chiaro intento artistico. Lo straniante prologo in bianco e nero, con l’atto sessuale esplicito sulle note classiche di “Lascia ch’io pianga” di Georg Friedrich Händel, è un momento di stordente turbamento visivo, in pura scuola von Trier. Questo film diseguale e ardito, atroce e radicale, ma non privo di elementi di pura genialità visionaria, è un pugno allo stomaco che stimola la mente, elude la morale, titilla l’istinto e provoca una vertigine emotiva nello spettatore. Diviso in quattro capitoli (“Pena”, “Dolore (il caos regna)”, “Disperazione”, “I tre mendicanti”), più un prologo e un epilogo, è un’opera disturbante, indimenticabile e definitiva. La tragica chiosa di un percorso umano ed artistico da cui potrà solo uscire un nuovo Lars von Trier. Forse migliore, forse peggiore, ma inevitabilmente diverso.

Voto:
voto: 4/5

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