martedì 21 marzo 2017

Io, Daniel Blake (I, Daniel Blake, 2016) di Ken Loach

Daniel Blake è un carpentiere di Newcastle che, a 59 anni, è colpito da un grave attacco di cuore che non gli consente più di lavorare. Caduto nel dedalo delle burocrazie assistenziali statali, egli si vede prima negare il sussidio di invalidità e poi finisce in un cavilloso limbo di regole, in attesa di poter fare ricorso per la mancata concessione del sostegno di inabilità. Nel frattempo, per poter accedere al sovvenzionamento di disoccupazione, il nostro è obbligato a darsi da fare per cercare un lavoro anche se poi, per tassativo divieto medico, non sarà in grado di svolgerlo. Grintoso e indomabile, Daniel s’impegna con tutte le forze per vedere riconosciuti i propri diritti contro un pedante sistema di trafile e di formalismi che sembra progettato ad arte contro il cittadino. Durante la sua personale battaglia quotidiana, il nostro incontra la giovane Katie, ragazza madre disoccupata, con due figli a carico e appena giunta da Londra. Tra i due nasce una sincera amicizia, con la quale si sosterranno reciprocamente tra le mille difficoltà di sopravvivenza giornaliera. Straordinario dramma di denuncia sociale diretto con lucida sobrietà e graffiante vis polemica da Ken Loach, regista di ammirevole coerenza e di costante impegno civile, da sempre avulso dalle logiche commerciali delle grandi major del cinema mainstream e da sempre in prima linea come caustico cantore degli emarginati del capitalismo occidentale. In questa nuova vibrante opera, meritatamente premiata con la Palma d’Oro al Festival di Cannes, l’autore britannico (che molti critici hanno spesso accostato al nostro Nanni Moretti o all’americano Michael Moore) mette sulla graticola il sistema assistenziale inglese, la burocrazia elefantiaca che lo contraddistingue, le politiche elitarie di un sistema che avvantaggia sempre le classi più abbienti e i modelli di valutazione sanitaria che non corrispondono alle reali esigenze del cittadino. Il suo dolente J'accuse non disdegna l’utilizzo di una tagliente ironia nera che, da un lato, non fa mai venir meno il dovuto livello d’indignazione e, dall’altro, rincara la dose della sua invettiva attraverso una distorsione grottesca che getta una luce ridicolmente inquietante sul potere statale. Già il dialogo iniziale su schermo nero, mentre scorrono i titoli d’apertura, è assolutamente memorabile e ci immerge a spron battuto nel tema del film. Un tema doloroso, realistico e quanto mai attuale. Loach ci conduce per mano, costantemente al fianco dei suoi personaggi, nella terra di nessuno degli alienati estromessi dalla tavola opulenta del consumismo, nei ghetti dove immigrati e disoccupati lottano ogni giorno per sopravvivere, figli di un dio minore estromessi dal sogno capitalistico. Di contro, il regista oppone allo squallore delle storture statali, la travolgente carica di umanità dei suoi protagonisti, la solidarietà tra classi disagiate che, a volte, scatta e riesce a tener viva la dignità dell’uomo, pur in un contesto di degrado e di disperazione. Questo amarissimo documento del nostro tempo è un film importante, toccante, necessario, capace di commuovere senza alcun patetismo e di suscitare un sacrosanto sdegno contro le ingiustizie sociali del modello governativo occidentale. E la lotta disperata di Daniel (interpretato con ammirevole verismo da Dave Johns) è la stessa che il regista combatte da sempre: la lotta ideologica di un uomo d’altri tempi che sbandiera con forza il proprio credo, si oppone alle discriminazioni, condanna le ingiustizie e rifiuta la tecnologia di massa che ha trasformato i cittadini in consumatori. L’estetica minimale al servizio della denuncia sociale è, da sempre, il marchio di fabbrica di Loach e questo suo opus numero 25 si erge solenne come summa artistica (e politica) di un’intera carriera.

Voto:
voto: 4,5/5

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