Daniel
Blake è un carpentiere di Newcastle che, a 59 anni, è colpito da un grave
attacco di cuore che non gli consente più di lavorare. Caduto nel dedalo delle
burocrazie assistenziali statali, egli si vede prima negare il sussidio di
invalidità e poi finisce in un cavilloso limbo di regole, in attesa di poter
fare ricorso per la mancata concessione del sostegno di inabilità. Nel
frattempo, per poter accedere al sovvenzionamento di disoccupazione, il nostro è obbligato
a darsi da fare per cercare un lavoro anche se poi, per tassativo divieto
medico, non sarà in grado di svolgerlo. Grintoso e indomabile, Daniel
s’impegna con tutte le forze per vedere riconosciuti i propri diritti contro un
pedante sistema di trafile e di formalismi che sembra progettato ad arte contro
il cittadino. Durante la sua personale battaglia quotidiana, il nostro incontra
la giovane Katie, ragazza madre disoccupata, con due figli a carico e appena
giunta da Londra. Tra i due nasce una sincera amicizia, con la quale si
sosterranno reciprocamente tra le mille difficoltà di sopravvivenza giornaliera. Straordinario dramma di denuncia
sociale diretto con lucida sobrietà e graffiante vis polemica da Ken Loach, regista di ammirevole coerenza e di
costante impegno civile, da sempre avulso dalle logiche commerciali delle
grandi major del cinema mainstream e da sempre in prima linea
come caustico cantore degli emarginati del capitalismo occidentale. In questa
nuova vibrante opera, meritatamente premiata con la Palma d’Oro al Festival di
Cannes, l’autore britannico (che molti critici hanno spesso accostato al nostro
Nanni Moretti o all’americano Michael Moore) mette sulla graticola il sistema
assistenziale inglese, la burocrazia elefantiaca che lo contraddistingue, le
politiche elitarie di un sistema che avvantaggia sempre le classi più abbienti
e i modelli di valutazione sanitaria che non corrispondono alle reali esigenze
del cittadino. Il suo dolente J'accuse
non disdegna l’utilizzo di una tagliente ironia nera che, da un lato, non fa mai
venir meno il dovuto livello d’indignazione e, dall’altro, rincara la dose
della sua invettiva attraverso una distorsione grottesca che getta una luce
ridicolmente inquietante sul potere statale. Già il dialogo iniziale su schermo
nero, mentre scorrono i titoli d’apertura, è assolutamente memorabile e ci immerge
a spron battuto nel tema del film. Un tema doloroso, realistico e quanto mai
attuale. Loach ci conduce per mano, costantemente al fianco dei suoi personaggi,
nella terra di nessuno degli alienati estromessi dalla tavola opulenta del
consumismo, nei ghetti dove immigrati e disoccupati lottano ogni giorno per
sopravvivere, figli di un dio minore estromessi dal sogno capitalistico. Di
contro, il regista oppone allo squallore delle storture statali, la travolgente
carica di umanità dei suoi protagonisti, la solidarietà tra classi disagiate
che, a volte, scatta e riesce a tener viva la dignità dell’uomo, pur in un
contesto di degrado e di disperazione. Questo amarissimo documento del nostro
tempo è un film importante, toccante, necessario, capace di commuovere senza
alcun patetismo e di suscitare un sacrosanto sdegno contro le ingiustizie
sociali del modello governativo occidentale. E la lotta disperata di Daniel (interpretato
con ammirevole verismo da Dave Johns) è la stessa che il regista combatte da
sempre: la lotta ideologica di un uomo d’altri tempi che sbandiera con forza il
proprio credo, si oppone alle discriminazioni, condanna le ingiustizie e
rifiuta la tecnologia di massa che ha trasformato i cittadini in consumatori. L’estetica
minimale al servizio della denuncia sociale è, da sempre, il marchio di fabbrica
di Loach e questo suo opus numero 25
si erge solenne come summa artistica (e politica) di un’intera carriera.
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