Una
famiglia agiata ed equamente rappresentata (padre, madre, figlio, figlia) si
reca nella sua casa di campagna ma la trova occupata da profughi ostili e
violenti che uccidono il capofamiglia a fucilate. Sconvolti e derubati dei loro
averi, i superstiti vagano attraverso campagne desolate, dove ben presto si
rendono conto che non sono i soli a vivere quest’odissea e che un qualche
evento catastrofico ha reso gli uomini simili a bestie feroci. Incapaci di
capire cosa sia realmente avvenuto, i tre, dopo un po’, smettono di
chiederselo, strenuamente impegnati nella lotta per la sopravvivenza. Tetro
apologo apocalittico di Haneke, che “ruba” il titolo a un poema tedesco, trae
possibile ispirazione da un misconosciuto film di Ingmar Bergman (L’ora del lupo (Vargtimmen, 1968)), allargandone però la prospettiva da scala
individuale a collettiva, e dà forma concreta ad un celebre proverbio latino (“Homo homini lupus”). Obbediente al suo
stile asettico e alla sua tirannica estetica del diniego, che bandisce ogni
orpello in favore di un cinema duro e puro, l’autore realizza un fosco affresco
“a tesi”, glaciale nei toni e radicale nei temi. Antiretorico e del tutto privo
di sovrastrutture sociali, connotazioni geografiche e collocazioni storiche,
questo opus n. 8 di Haneke va letto
come agghiacciante parabola sulla propensione umana alla violenza. Con un
utilizzo ossessivo della luce naturale, il rifiuto di implicazioni psicologiche
e la totale rinuncia a qualsiasi spiegazione (fedele alla lezione hitchcockiana
su come amplificare la portata angosciosa di un’apocalisse), questo freddo
trattato di antropologia estrema è un ritorno allo stadio ferino ed un viaggio
di smarrimento del sé. Senza concedere sconti al consumismo imperante che ha
impoverito il “terzo mondo” (nella parte iniziale la brutalità degli aggressori
è chiaramente imputabile alla loro disperata condizione di fame) e alle
ipocrisie dei nuovi modelli politici liberisti, il regista austriaco abbraccia
una dimensione corale, a lui poco congeniale, che finisce per indebolire il suo
aspro intimismo antropologico. Meno geometico e più metafisico rispetto ai suoi
standard, Haneke concede anche una non banale apertura nel finale che suggerisce
una luce di speranza, ricorrendo a un artificio fantastico che dovrebbe
suggerire la potenza ancestrale dell’istinto di sopravvivenza, ovvero la più
grande forza insita nell’uomo. Nel cast segnaliamo Isabelle Huppert (musa del
regista), Maurice Bénichou, Patrice Chéreau e Béatrice Dalle, diva “maledetta”
del cinema francese specializzata in ruoli estremi. E’ un film chiaramente al
di sotto degli altissimi livelli qualitativi a cui l’autore ci ha abituati
(che, non a caso, è stato stroncato dalla critica in modo unanime), ma comunque
non privo di spunti interessanti e di momenti di possente suggestione figurativa.
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