lunedì 27 marzo 2017

Il tempo dei lupi (Le temps du loup, 2003) di Michael Haneke

Una famiglia agiata ed equamente rappresentata (padre, madre, figlio, figlia) si reca nella sua casa di campagna ma la trova occupata da profughi ostili e violenti che uccidono il capofamiglia a fucilate. Sconvolti e derubati dei loro averi, i superstiti vagano attraverso campagne desolate, dove ben presto si rendono conto che non sono i soli a vivere quest’odissea e che un qualche evento catastrofico ha reso gli uomini simili a bestie feroci. Incapaci di capire cosa sia realmente avvenuto, i tre, dopo un po’, smettono di chiederselo, strenuamente impegnati nella lotta per la sopravvivenza. Tetro apologo apocalittico di Haneke, che “ruba” il titolo a un poema tedesco, trae possibile ispirazione da un misconosciuto film di Ingmar Bergman (L’ora del lupo (Vargtimmen, 1968)), allargandone però la prospettiva da scala individuale a collettiva, e dà forma concreta ad un celebre proverbio latino (“Homo homini lupus”). Obbediente al suo stile asettico e alla sua tirannica estetica del diniego, che bandisce ogni orpello in favore di un cinema duro e puro, l’autore realizza un fosco affresco “a tesi”, glaciale nei toni e radicale nei temi. Antiretorico e del tutto privo di sovrastrutture sociali, connotazioni geografiche e collocazioni storiche, questo opus n. 8 di Haneke va letto come agghiacciante parabola sulla propensione umana alla violenza. Con un utilizzo ossessivo della luce naturale, il rifiuto di implicazioni psicologiche e la totale rinuncia a qualsiasi spiegazione (fedele alla lezione hitchcockiana su come amplificare la portata angosciosa di un’apocalisse), questo freddo trattato di antropologia estrema è un ritorno allo stadio ferino ed un viaggio di smarrimento del sé. Senza concedere sconti al consumismo imperante che ha impoverito il “terzo mondo” (nella parte iniziale la brutalità degli aggressori è chiaramente imputabile alla loro disperata condizione di fame) e alle ipocrisie dei nuovi modelli politici liberisti, il regista austriaco abbraccia una dimensione corale, a lui poco congeniale, che finisce per indebolire il suo aspro intimismo antropologico. Meno geometico e più metafisico rispetto ai suoi standard, Haneke concede anche una non banale apertura nel finale che suggerisce una luce di speranza, ricorrendo a un artificio fantastico che dovrebbe suggerire la potenza ancestrale dell’istinto di sopravvivenza, ovvero la più grande forza insita nell’uomo. Nel cast segnaliamo Isabelle Huppert (musa del regista), Maurice Bénichou, Patrice Chéreau e Béatrice Dalle, diva “maledetta” del cinema francese specializzata in ruoli estremi. E’ un film chiaramente al di sotto degli altissimi livelli qualitativi a cui l’autore ci ha abituati (che, non a caso, è stato stroncato dalla critica in modo unanime), ma comunque non privo di spunti interessanti e di momenti di possente suggestione figurativa.

Voto:
voto: 3,5/5

Nessun commento:

Posta un commento