venerdì 24 marzo 2017

Il nastro bianco (Das weiße Band - Eine deutsche Kindergeschichte, 2009) di Michael Haneke

Eichwald, 1913: nel piccolo paese del nord della Germania, abitato da una comunità rurale, protestante e decorosa, accadono eventi inspiegabili e tragici: violenze, soprusi, crudeltà sconvolgenti di cui non si riesce a trovare il colpevole. Il maestro del villaggio ha un’improvvisa intuizione per spiegare i fatti ma nessuno gli crede. Poi scoppia la “grande guerra” ed egli dovrà lasciare per sempre il suo luogo natio. Il primo film in lingua tedesca di Michael Haneke è un austero, implacabile ed ermetico saggio anti-narrativo sull’inintelligibilità del male atavicamente radicato nella natura umana. Per il suo altissimo rigore formale (che si esplica nella sontuosa fotografia in un bianco e nero sovraesposto e privo di contrasti) e per il suo impassibile sguardo di severa castità, il film guarda dritto al cinema di Dreyer. Invece per la lucida capacità di rappresentazione di un ambiente devoto e classista (che in realtà nasconde bieca intolleranza e desiderio di sopraffazione), sono innegabili le connessioni con gli scritti di Max Weber sul protestantesimo. Con la consueta glaciale asetticità, il grande regista austriaco descrive un piccolo microcosmo campestre per indagare le complesse dinamiche delle relazioni umane, ricercando le radici di quel male ed i semi di quell’odio che poi esploderanno, vent’anni dopo, con la follia del nazismo che travolgerà prima la Germania e poi l’Europa sotto un diluvio di crimini abominevoli. Asciugando del tutto le emozioni, l’autore adotta uno stile trattenuto e una narrazione episodica, tenuta insieme dalla voce fuori campo del narratore protagonista (il maestro del paese), con il montaggio che stacca sempre un attimo prima dell’esplosione del culmine drammatico. Questa tecnica volutamente implosiva non impedisce il crescendo di tensione, anzi lo amplifica perché non ne disperde mai la forza, e simboleggia perfettamente il senso intimo del film: l’orrore ripugnante appena celato sotto la patina del perbenismo era troppo grande per poter essere ammesso, spiegato, compreso e quei bambini dagli occhi di ghiaccio, che poi incendieranno l’Europa come i nazisti di domani, ne sono i figli più prossimi, silenziosamente allevati all’insegna dell’intransigenza e della prevaricazione verso i più deboli. Haneke non fornisce alcuna risposta in merito all’attribuzione delle colpe ai padri piuttosto che ai figli, ma ci riporta i fatti alla luce di una fertile ambiguità che solletica il giudizio critico dello spettatore ed accende il desiderio di dibattito dello storico. Assolutamente geniale la metafora del nastro bianco, imposto dal Pastore protestante agli adolescenti come emblema di candore, che poi si trasformerà nella vergognosa stella di Davide che quegli stessi bambini, divenuti adulti, imporranno alle vittime dell’Olocausto. Inesorabile e volutamente estenuante, quest’opera crudelmente geometrica è come una goccia ossessiva che ti disturba nel profondo, quasi una sorta di applicazione subliminale di quei falsi ideali-paravento (disciplina, purezza, severità) che hanno allevato i figli del male e i prodromi dello sterminio nella Germania di inizio ‘900. Pur in tanta inflessibile gravità Haneke si concede due sequenze memorabili di casta poesia: il ricordo dell’amore giovanile tra il maestro e la mammana del borgo e l’incendio che interrompe bruscamente il sonno dei bambini. Premiato, non senza polemiche, con la Palma d’Oro al Festival di Cannes 2009, il film ha fortemente diviso la critica ed è risultato indigesto al pubblico mainstream, poco avvezzo alle altezze da capogiro del cinema d’Autore. Ma è un indubbio capolavoro del grande regista austriaco, una nuova originale pietra miliare nella sua estetica della negazione.

Voto:
voto: 5/5

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