lunedì 29 febbraio 2016

I ponti di Madison County (The Bridges of Madison County, 1995) di Clint Eastwood

Iowa, anni ’60: Francesca è una donna italiana di mezza età, sposata con un americano da cui ha avuto due figli ed emigrata negli Stati Uniti da ragazza. Casalinga dimessa, è una donna un po’ sfatta che ha barattato la sua naturale vivacità spirituale con la totale dedizione alla famiglia ed alla monotona routine di un matrimonio tranquillo ma privo di lampi. Ma per lei tutto cambia nell’autunno del 1965, quando incontra Robert Kincaid, cinquantenne fotografo del National Geographic, uomo sensibile e affascinante che vive la sua vita in modo avventuroso, scattando fotografie in giro per il mondo. Il motivo del fatale incontro è un servizio fotografico che Robert deve realizzare sui vecchi ponti coperti di Madison County, per i quali chiederà informazioni alla donna. Approfittando dell’assenza della sua famiglia, recatasi ad una fiera del bestiame fuori contea, i due vivranno una travolgente passione di quattro giorni, durante i quali Francesca avrà modo di “scoprire” la sua reale sensualità, il suo animo esuberante ed il vero amore. Ma al ritorno di marito e figli la donna dovrà compiere la scelta più difficile della sua vita. Dall'omonimo romanzo di Robert James Waller, Eastwood ha tratto uno splendido dramma sentimentale, intenso, crepuscolare, delicato, ricco di sfumature psicologiche e dal finale struggente che regala autentica commozione, senza mai sfociare nella melassa lacrimevole dei furbi prodotti hollywoodiani di questo tipo. Con una messa in scena tecnicamente sontuosa, una fotografia che restituisce l’atmosfera di sottile malinconia degli autunni dell’Iowa e l’idealismo ingenuo degli anni ’60 e la consueta regia classica, che fa “scomparire” ogni tentazione di manierismo nella sobrietà narrativa che si mette totalmente al servizio degli attori, il grande regista californiano mette a segno un’altra pietra miliare della sua invidiabile filmografia, realizzando IL film romantico degli anni ’90. La scelta vincente è quella di raccontare l’intera storia, in flashback, dal punto di vista di Francesca, interpretata da una straordinaria Meryl Streep con una performance da applausi. In certe sequenze la grande attrice sembra anche omaggiare la nostra Anna Magnani nella sua carriera hollywoodiana, dimostrando anche una notevole empatia “chimica” con il protagonista maschile, interpretato con stile dallo stesso Eastwood. Nel doppio ruolo, a lui congeniale, di regista-attore è, ancora una volta, il regista ad avere la meglio, anche perché l’attore viene messo in ombra dalla prova della fuoriclasse Streep. Alle prese con un genere non esattamente vicino alla sua filmografia abituale, l’autore dimostra un’assoluta padronanza narrativa, rileggendo le ardenti pagine di Waller con eleganza, verosimiglianza e sensibilità, riuscendo a rendere credibili e coinvolgenti persino i dialoghi più “banali” e sospendendo la tentazione di qualsiasi giudizio morale nei confronti dei due amanti “fuori tempo massimo”, in nome di quel sentimento “favolistico” che sa essere l’amore. In questo senso è assolutamente ammirevole la capacità di Eastwood di entrare, con garbo e realismo, in un punto di vista femminile, senza mai perdere il filo della coerenza e l’asciuttezza del racconto. Ma la forza assoluta dell’opera, come anche del romanzo ispiratore, sta tutta nel senso di impossibilità che aleggia costantemente sulla relazione, una presenza incombente, discreta di fronte alla forza della passione ma, in definitiva, ineluttabile. E il più classico dei registi americani moderni sa anche regalarci una memorabile sequenza finale, che ci stringe il cuore e ci afferra alla gola: l’intera parte, silenziosa, con Francesca nel furgone e Robert sotto la pioggia è da antologia, autentica ed emozionante poesia. Grande successo di pubblico e critica per questo melodramma vitale e “lacerato”, proprio come la sua intensa protagonista.

Voto:
voto: 4/5

Platoon (Platoon, 1986) di Oliver Stone

Durante la guerra in Vietnam il soldato idealista Chris Taylor, partito volontario per dimostrare che non dovessero essere solo le classi sociali più deboli a rischiare la vita per la patria, si scontra con una terribile realtà fatta di orrore quotidiano, violenza disumana, degrado morale e perdita di ogni forma di umanità. Nel tragico scontro tra due sergenti, suoi mentori sul campo di battaglia, il sadico Barnes e l’assennato Elias, Chris perderà per sempre la sua innocenza e troverà la propria dolorosa via nell’abominio della “sporca guerra”. Celebre war movie di Oliver Stone, probabilmente il suo film più famoso, che riscosse un notevole successo di pubblico e critica, facendo incetta di premi “pesanti” alla sua uscita. Chiaramente ispirato dalle reali esperienze del regista reduce, che ha combattuto in Vietnam tra il 1967 e il 1968, è una truce requisitoria antimilitarista, intrisa di acri umori polemici verso il proprio paese e verso la retorica dell’eroismo patriottico. Il punto di vista di Chris, interpretato dal volenteroso Charlie Sheen, è, evidentemente, quello dell’autore, che si identifica con il suo protagonista, condividendone gli ideali di partenza e la successiva, inevitabile trasformazione spirituale, amaramente mossa dal disincanto e dalla necessità di sopravvivere in un ambiente efferato. Il viaggio interiore di Chris/Sheen, così come quello del personaggio interpretato da suo padre nel capolavoro assoluto Apocalypse Now di Francis Ford Coppola, è un doloroso itinerario spirituale negli abissi più cupi e primordiali della natura umana, dominati da un male così radicale da risultare privo di senso. Un itinerario definitivo, privo di appello, di ritorno e di redenzione. Ma se la prima parte del film ha una sua indubbia forza tragica, un’energia possente ed una lucida dimensione di crudele realismo, la seconda perde vigore e s’ingolfa in un pachidermico tripudio di scene madri all’insegna del più bieco sensazionalismo, la cui enfasi strumentale sfocia nella retorica negativa di stampo moralistico. Il suo limite maggiore è proprio il suo essere, spudoratamente, un film “da Oscar”, con troppo livore e troppo impeto nel suo dichiarato intento declamatorio. La legittimità del messaggio è fuori discussione, l’etica che sostiene l’operazione pure, ma il pulpito è una cosa troppo dura da digerire, anche per Hollywood. Nell’importante cast, oltre al già citato Sheen junior, vanno ricordati gli efficaci Willem Dafoe e Tom Berenger, nei panni dei due sergenti contendenti, ed un giovanissimo Johnny Depp. La pellicola vinse quattro Oscar (film, regia, montaggio e montaggio sonoro), tre Golden Globe ed il premio alla regia al Festival di Berlino. Il suo successo, esagerato ed ampiamente superiore al suo reale valore, riuscì, purtroppo, ad oscurare un’opera di ben altro rilievo e spessore, come lo splendido Full Metal Jacket, “colpevole” di essere uscito subito dopo il film di Stone, a causa dei tempi “biblici” di lavorazione tipici dei set di Stanley Kubrick.

Voto:
voto: 3/5

venerdì 26 febbraio 2016

Stella Solitaria (Lone Star, 1996) di John Sayles

Al confine tra Texas e Messico vengono scoperti, in un poligono di tiro abbandonato, un teschio umano ed una stella da sceriffo consumata dal tempo. Lo sceriffo Sam Deeds inizia una difficile indagine che lo porta a sospettare del suo stesso padre, non più vivente, il leggendario Buddy Deeds, a sua volta sceriffo, amato e rispettato da tutta la città per le sue qualità di tutore della legge. Le scoperte fatte da Sam nel corso dell’inchiesta metteranno in crisi le sue certezze e lo porteranno a dubitare di tante convinzioni consolidate. Anche la sua relazione sentimentale con la messicana Pilar sarà fonte di non poche sorprese, che daranno un ulteriore scossone alla saldezza morale di Sam. Splendido dramma corale di John Sayles, con un sapiente intreccio di temi, storie e personaggi, che s’intersecano in questa ruvida storia di confine, dal passo nostalgico e dal piglio “clandestino”. Le linee narrative principali sono almeno quattro, tra passato e presente, per questo film cupo, fieramente americano e lontanissimo dagli stilemi edificanti e dagli abusati stereotipi del cinema hollywoodiano. Denso di contenuti e di tensioni emotive, è una straordinaria commistione di generi diversi, dal western al thriller, dal giallo investigativo al dramma familiare, che spazia con assoluta padronanza dal patos narrativo del conflitto padre-figlio all’intolleranza razziale negli avamposti di frontiera, dalla violenza insita nella cultura americana al caustico affresco sociale. Ma il tema saliente di quest’aspra pellicola politicamente scorretta risiede nel rapporto tra passato e presente, tra storia e leggenda, ovvero nella difficoltà, tutta americana, di fare i conti con il proprio doloroso trascorso senza scegliere né di mitizzarlo né di ignorarlo. E’ evidente, in tal senso, la colta citazione fordiana per il celebre L’uomo che uccise Liberty Valance, che riflette sulla medesima tematica. Questo grande film indipendente, incredibilmente misconosciuto nel nostro paese, si concede anche il lusso di un finale “scandaloso”, che induce profonde riflessioni sulla difficoltà dei rapporti umani e su come le presunte differenze siano solo la facciata di un modello antropologico ben più complesso, un intreccio di destini alla deriva attraverso la storia. Nel sontuoso cast vanno citati Chris Cooper, Matthew McConaughey, Elizabeth Peña, Kris Kristofferson e Frances McDormand. Dal punto di vista tecnico è straordinaria la coesistenza simultanea di linee temporali diverse in una singola inquadratura, in modo da garantire una connessione ed una continuità tra presente e passato, rimarcando così il groviglio relazionale tra i personaggi. Tra le tante sequenze memorabili vanno certamente ricordate il flashback tra Sam e Pilar in riva al fiume ed il drive-in deserto, simbolo pregnante di una “vecchia” America che non esiste più.

Voto:
voto: 4,5/5

Remember (Remember, 2015) di Atom Egoyan

Zev è un ebreo anziano, sopravvissuto ad Auschwitz, affetto da una grave forma di demenza senile che gli fa dimenticare ogni cosa dopo il risveglio mattutino. Il suo amico e coetaneo Max, con cui ha condiviso la terribile esperienza della Shoah e con cui convive nella stessa casa di riposo per anziani, gli affida una missione cruciale: rintracciare ed uccidere l’aguzzino delle SS che, cinquant’anni prima, sterminò le loro famiglie nel lager nazista. Max è infatti convinto che l’uomo sia ancora vivo, che abbia cambiato identità e che risieda in nord America. Per portare a termine la sua missione Zev, smarrito ma ancora fisicamente abile, dovrà portare con sè una lettera di Max contenente tutte le istruzioni dettagliate, e dovrà rileggerla di continuo per non perdere la memoria. Thriller investigativo, dai vaghi echi hitchcockiani, di Egoyan, con cui il regista armeno si cimenta con la Storia, attraverso la più grande tragedia del ‘900, con la memoria (non a caso costantemente evocata quando si parla dell’Olocausto ebraico) e con il tema dell’identità. Ancora una volta è il viaggio l’elemento centrale del suo cinema, il viaggio come catarsi, come ricerca del proprio passato, di sé stessi e, quindi, come strumento di una nuova epifania. In un film come questo è bene ridurre al minimo i dettagli sulla trama e sarebbe opportuno, nonostante il finale non sia del tutto imprevedibile per occhi esperti, vederlo sapendone il meno possibile. Con un ritmo compassato ed un’ottima interpretazione di Christopher Plummer, il vero punto di forza della pellicola, il regista ci conduce in questo inquietante percorso che scava nella memoria e nella coscienza collettiva, facendoci costantemente avvertire il respiro incombente dell’orrore ma tenendolo sempre a parte, fuori fuoco, senza mai dargli una forma esplicita attraverso un flashback, un’immagine, un ricordo, ma evocandolo solamente nei dialoghi sbiaditi tra gli anziani protagonisti. L’unica scena realmente forte, finale a parte, ovvero l’incontro-scontro di Zev con il fanatico sbirro neonazista, evidente sottoprodotto di una cultura delirante incline all’intolleranza e al degrado morale, è anche la più debole del film. Il suo contrappunto, il colloquio con il tedesco omosessuale in fin di vita, è invece un momento alto, la sincera empatia di chi riesce naturalmente, dall’alto della saggezza dell’età, ad accettare i “diversi” condividendo con essi una sincera emozione. In definitiva ci troviamo di fronte ad un discreto thriller di ricerca deduttiva, dall’affascinante struttura a puzzle, non particolarmente originale ma che trova i suoi motivi d’interesse nelle buone prove di un cast “navigato”, in cui, oltre al già citato protagonista, vanno anche menzionati Bruno Ganz e Martin Landau.

Voto:
voto: 3/5

Il viaggio di Felicia (Felicia's Journey, 1999) di Atom Egoyan

Joe Hilditch è un uomo di mezza età, timido, scapolo e solitario. Responsabile di una mensa aziendale, trascorre il tempo libero degustando cibi succulenti e guardando i videotape di sua madre, vecchia diva della televisione, divenuta famosa per un programma di cucina. Ma Joe ha un terribile segreto nell’animo, una doppia vita da nascondere di cui nessuno sospetta. E’ infatti un serial killer metodico che va a caccia di giovani ragazze sole e spiantate, per allacciare prima con loro un rapporto di amicizia e poi ucciderle, seppellendone i corpi nel suo giardino. Un giorno l’uomo incontra la minorenne Felicia, fuggita incinta dall’Irlanda alla disperata ricerca del suo fidanzato Johnny, emigrato in Inghilterra per lavorare in fabbrica. Hilditch le offre il suo aiuto e la ragazza, sola e spaesata, sembra fidarsi di lui, non potendo immaginare chi sia realmente il suo improvviso benefattore. Dall'omonimo romanzo di William Trevor, Egoyan ha tratto un cupo dramma esistenziale, una triste storia di anime perdute, tra complessi edipici, infanzie tormentate e psicopatologie represse. E represso è forse l’aggettivo più calzante per questo film grigio, inquietante, infelicemente trattenuto come un singhiozzo soffocato che, costantemente, ti avvinghia alla gola senza mai liberarsi in pianto realmente liberatorio. Come un lucido documentarista del dolore interiore, quello di Hilditch ma anche quello della delusa Felicia, il regista analizza i tormenti dei due protagonisti con meticoloso rigore, con una messa in scena algida disseminata di citazioni hitchcockiane, che conferiscono al quadro d’insieme un’angosciante ambiguità per un thriller atipico e introspettivo, uno dei rari casi di film sui serial killer in cui non viene mai mostrata alcuna violenza esplicita. L’esplorazione dell’oscuro inconscio di Hilditch, con i continui salti tra presente e passato e l’ossessiva ricorrenza di schemi compulsivi (il rituale culinario, i video in VHS), assume la forma di un’agghiacciante immersione in un universo “malato”, flemmaticamente morboso, denso di rimandi arcani a quelle favole antiche che costituiscono la materia fondante di tutte le paure infantili. Straordinaria interpretazione di Bob Hoskins, la migliore della sua lunga carriera di caratterista di classe, il cui volto triste e tranquillo è perfetto per un personaggio come Hilditch, un “mostro” gentile pieno di zone d’ombra. Molto brava anche la giovane Elaine Cassidy nei panni di Felicia, con il suo sguardo intenso di perfetto agnello sacrificale. Nonostante qualche divagazione di troppo nella parte centrale, che ci allontana inutilmente dal cuore nero della vicenda, questo thriller anticonvenzionale è un’opera di assoluto rilievo nella filmografia del regista “apolide” di origine armena, ed una delle più originali pellicole sui serial killer mai girate. Memorabile la sequenza in cui Hoskins/ Hilditch si confessa alla dormiente Felicia e le racconta delle “altre”, del suo tenero rapporto con loro prima di “metterle a riposare”. Altri punti di forza del film sono la ricercata colonna sonora di Michael Danna, affascinante commistione straniante di musiche retrò e di influenze celtiche, che conferisce alle scene più drammatiche un forte senso di patos, e la brillante confezione estetica, con una raffinata fotografia che ritrae perfettamente i paesaggi industriali britannici.

Voto:
voto: 4/5

Donne sull'orlo di una crisi di nervi (Mujeres al borde de un ataque de nervios, 1988) di Pedro Almodóvar

Pepa è una doppiatrice di cinema che viene brutalmente lasciata, attraverso un laconico messaggio sulla segreteria telefonica, dal suo amante e collega Iván. Visibilmente frustrata cerca di rintracciarlo prima che parta per la Svezia, ma finisce in una tumultuosa ridda di pittoreschi incontri. Con un’amica che ha una relazione con un terrorista e crede di essere spiata dalla polizia, con la moglie psicotica di Iván, che intende ucciderlo per vendicarsi, e persino con la nuova fiamma dell’uomo, un’avvocatessa che cerca la fuga per cambiar vita. Brillante commedia sofisticata corale di Almodóvar, frenetica, briosa, a tratti irresistibile. E’ un effervescente compendio di equivoci, in salsa farsesca, in cui lo stile aggressivamente spudorato dell’autore si sublima in un arguto incastro di situazioni al limite, illustrate con eleganza e dinamismo, e ravvivate da spruzzi comici di caustica irriverenza. In questo film costantemente “sull’orlo” dell’eccesso, l’enfant terrible del cinema spagnolo raggiunge la piena coerenza tra forma e contenuto, regalandoci una divertente e folle commedia sentimentale con incursioni in un surrealismo sulfureo inteso a canzonare, con evidenti intenti critici, gli strumenti espressivi (il doppiaggio o il telefono) che consentono la proliferazione della menzogna attraverso un’alienante babele di forme di comunicazione. Nel grande cast tutto al femminile è una continua gara a chi merita la palma della più brava, tra Carmen Maura, Julieta Serrano, Rossy de Palma e María Barranco. Da segnalare anche le apparizioni di Antonio Banderas e Javier Bardem, attori maschili fedelissimi di Almodóvar. Fu un grande successo di pubblico e critica, pluripremiato nel suo paese e candidato all’Oscar come miglior film straniero, ma la statuetta se l’aggiudicò il danese Pelle alla conquista del mondo. E’ il film che ha consacrato definitivamente il talento del regista, imponendolo come grande autore di stampo internazionale, capace di coniugare vivacità, trasgressione, colore, sensualità, dramma e commedia in un elegante universo poetico dove il geniale ed il grottesco convivono degnamente in nome di un caldo sentimento.

Voto:
voto: 4/5

Un mondo perfetto (A Perfect World, 1993) di Clint Eastwood

Nel Texas del 1963 il rapinatore Butch Haynes evade dal carcere di Hunstsville, prende in ostaggio un bambino di otto anni, Philip detto “Buzz”, e con lui inizia una rocambolesca fuga verso la lontana Alaska. Sulle sue tracce si mettono un roccioso ranger tutto d’un pezzo, una tenace criminologa ed un tiratore scelto dal grilletto facile, dando vita ad un’affannosa caccia all’uomo, attraverso strade polverose e verdi piantagioni di granturco. Intanto tra Haynes ed il piccolo “Buzz” sta nascendo un sincero rapporto di reciproca fiducia, perché il bambino vede in lui il padre che non ha mai avuto. Intenso road movie di Clint Eastwood, dal titolo amaramente ironico, sotto forma di struggente dramma esistenziale che si esplica nel rapporto, autentico quanto improbabile, tra un bambino ed un delinquente “gentile”. Emblematicamente ambientato nell’America texana del 1963, proprio alla vigilia dell’assassinio del presidente Kennedy, è una tragica elegia in chiaroscuro che ci parla, soprattutto, di perdita dell’innocenza. L’innocenza di “Buzz”, costretto a crescere di colpo a causa degli straordinari eventi vissuti nei tumultuosi giorni al fianco di Haynes, e quella della nazione americana, che perderà improvvisamente sogni e certezze dopo lo shock dell’attentato di Dallas. Eastwood descrive con lucido rigore, accostando alla lievità del tocco l’asprezza dei contenuti, un mondo tutt’altro che perfetto, dando vita ad un’acuta riflessione critica sulla società americana alla vigilia di una di quelle date, il 22 novembre 1963, che più di tutte ne hanno irreversibilmente modificato storia e coscienza. L’autore si conferma narratore di razza, maturo e profondamente amaro nel drammatico finale (che, guarda caso, ci parla di un omicidio “legalizzato”), ma anche capace di mirabili tocchi di tenerezza nel commovente rapporto che s’instaura tra i due improvvisati compagni di viaggio. Un rapporto sinceramente toccante, che ci emoziona parlandoci dritto nell’anima e che rappresenta, inevitabilmente, il cuore pulsante dell’opera. L’autore conferma anche la sua naturale abilità nella direzione degli attori, tutti bravissimi, da Kevin Costner al piccolo T.J. Lowther, da Laura Dern allo stesso Eastwood, ovviamente nei panni del granitico sbirro Red Garnett. Incredibilmente snobbato dai premi Oscar del 1994, questo mondo (im)perfetto del grande regista californiano è anche un magistrale esempio di nuovo cinema classico, malinconicamente pungente e profondamente etico, nell’accezione più positiva del termine.

Voto:
voto: 4/5

Caro diario (Caro diario, 1993) di Nanni Moretti

Tre momenti diversi della vita di Nanni (Moretti) raccontati in tre episodi distinti. Nel primo (“In vespa”) Nanni vaga per le strade deserte ed assolate della Roma d’agosto, attraverso scorci da cartolina e periferie degradate. Va al cinema e poi finisce all’Idroscalo di Ostia, nel luogo dove fu assassinato Pier Paolo Pasolini. Nel secondo (“Isole”) Nanni viaggia per le isole Eolie, da Lipari a Filicudi, insieme all’amico Gerardo, che è affetto da teledipendenza patologica. Nel terzo (“Medici”) Nanni ci racconta la sua odissea personale, in buona parte realmente accaduta, a causa di un linfoma di Hodgkin, diagnosticato con enorme difficoltà dopo una serie interminabile di visite mediche, consulti, accertamenti e cure tanto dispendiose quanto inutili. Splendido racconto personale, sotto forma di originale agenda autobiografica aperta, costruito sapientemente in bilico tra toni opposti: dramma e commedia, realtà e finzione, cronaca e romanzo, severità e ironia, profondità e leggerezza. Nonostante le apparenze ed il titolo sarcastico è uno dei film morettiani in cui l’autore parla meno di sé stesso, svolazzando, tra momenti impagabili e geniali invenzioni, attraverso profonde critiche di natura collettiva (al cinema americano, ai critici cinematografici, alla tv spazzatura, alle cattive abitudini dei vacanzieri estivi, al sistema sanitario nazionale), fino a momenti di reale commozione, come il grande vuoto spirituale, morale, politico e culturale lasciato dalla tragica scomparsa di Pasolini. Senza retorica né abbellimenti, ma con la consueta spavalda perfidia intellettuale, l’autore ci consegna un sincero spaccato dell’Italia degli anni ’90, dimostrando una padronanza stilistica ed un’originalità di visione assolutamente encomiabili. La rinuncia al filtro di un personaggio di fiction ed al tradizionale plot narrativo, dà luogo ad una sorta di cinema verità in cui il narratore-regista-attore è una sorta di “tuttologo” che intende stabilire una reale complicità con il pubblico, cercando di abbattere i pregiudizi politici, le antipatie personali e le posizioni intellettualmente snobistiche che hanno sempre accompagnato la sua persona. In questo film ondivago e solo apparentemente senza meta, fatto di scatti improvvisi, depistaggi e metafore, Moretti prova a tracciare una linea di demarcazione tra il suo cinema del passato e quello del futuro, attraverso schizzi e suggestioni narrative, una sorta di improvvisato racconto per appunti, scritti liberamente, ma tutti animati da un costante impegno civile. Premiato con il Premio alla regia al Festival di Cannes, che ha sempre profondamente amato il cinema di Moretti, è un’opera fondamentale e spartiacque nella sua filmografia, perché segna l’inizio della piena maturità artistica dell’autore trentino. Tra le sequenze che sono entrate, a pieno diritto, nella memoria collettiva, vanno ricordate la visita al rione Spinaceto del primo episodio e l’esilarante critica “distruttiva” nei confronti del cruento thriller americano Henry, pioggia di sangue.

Voto:
voto: 4/5

Nel nome del padre (In the Name of the Father, 1993) di Jim Sheridan

Gerry Conlon è un giovane proletario irlandese, testardo e ribelle, in costante conflitto con il padre, Giuseppe, che lo considera uno sfaccendato. In cerca di indipendenza e di avventure parte per Londra, dove trova alloggio in una comune insieme ad altri ragazzi. Accusato di un attentato dinamitardo, compiuto dall’IRA il 5 ottobre 1974 in un pub di Guildford, viene arrestato con deboli prove e poi condannato a trent’anni, in un processo farsa, insieme ai suoi familiari e ad alcuni amici. Nonostante il vero autore dell’atto terroristico finisca per confessare, la polizia decide di non liberare gli innocenti ingiustamente incarcerati, per timore che la propria reputazione venga infangata dall’opinione pubblica. Sarà il coraggio di una coraggiosa avvocatessa a far prevalere la giustizia, dopo quindici anni di dure battaglie legali. Ispirato alla reale vicenda dei “Guildford Four” ed al romanzo autobiografico “Proved Innocent” del vero Gerry Conlon, questo vigoroso dramma giudiziario di Jim Sheridan è una veemente requisitoria contro le ingiustizie civili, contro il pregiudizio razziale e religioso e contro gli sporchi complotti compiuti da esponenti deviati della polizia inglese negli anni ’70, durante la cruenta lotta al terrorismo irlandese che lasciò sul campo numerose vittime e altrettanti soprusi. Gli evidenti punti deboli dell’opera sono nel rigido impianto a tesi, nella schematica enfatizzazione dell’abuso subito dai Conlon, che dà luogo ad un film manicheo, grossolano, didascalico, zeppo di retorica e di melassa edificante per suscitare l’inevitabile sdegno nello spettatore. La descrizione dell’ambiente carcerario e dei poliziotti inglesi è un tripudio di cliché, un ampolloso sermone a senso unico che nulla aggiunge alla reale comprensione della complessa vicenda giudiziaria. Di contro i meriti della pellicola risiedono nell’intenso rapporto tra padre e figlio, che rappresenta il cuore emotivo della vicenda, nelle aspre sequenze iniziali a Belfast, nelle eccellenti interpretazioni di Daniel Day-Lewis, Pete Postlethwaite ed Emma Thompson, e nelle “furiose” musiche composte da Trevor Jones e Bono degli U2. In definitiva ci troviamo di fronte ad un ruffiano e ben confezionato prodotto mainstream, avvincente, populista ed ampiamente sopravvalutato. Ebbe sette candidature agli Oscar del 1994 senza vincere alcun premio.

Voto:
voto: 3/5