Zev
è un ebreo anziano, sopravvissuto ad Auschwitz, affetto da una grave forma di
demenza senile che gli fa dimenticare ogni cosa dopo il risveglio mattutino. Il
suo amico e coetaneo Max, con cui ha condiviso la terribile esperienza della Shoah
e con cui convive nella stessa casa di riposo per anziani, gli affida una
missione cruciale: rintracciare ed uccidere l’aguzzino delle SS che,
cinquant’anni prima, sterminò le loro famiglie nel lager nazista. Max è infatti
convinto che l’uomo sia ancora vivo, che abbia cambiato identità e che risieda
in nord America. Per portare a termine la sua missione Zev, smarrito ma ancora
fisicamente abile, dovrà portare con sè una lettera di Max contenente tutte le
istruzioni dettagliate, e dovrà rileggerla di continuo per non perdere la
memoria. Thriller investigativo, dai vaghi echi hitchcockiani, di Egoyan, con
cui il regista armeno si cimenta con la Storia, attraverso la più grande tragedia del
‘900, con la memoria (non a caso costantemente evocata quando si parla
dell’Olocausto ebraico) e con il tema dell’identità. Ancora una volta è il
viaggio l’elemento centrale del suo cinema, il viaggio come catarsi, come
ricerca del proprio passato, di sé stessi e, quindi, come strumento di una nuova
epifania. In un film come questo è bene ridurre al minimo i dettagli sulla
trama e sarebbe opportuno, nonostante il finale non sia del tutto imprevedibile
per occhi esperti, vederlo sapendone il meno possibile. Con un ritmo compassato
ed un’ottima interpretazione di Christopher Plummer, il vero punto di forza
della pellicola, il regista ci conduce in questo inquietante percorso che scava
nella memoria e nella coscienza collettiva, facendoci costantemente avvertire
il respiro incombente dell’orrore ma tenendolo sempre a parte, fuori fuoco,
senza mai dargli una forma esplicita attraverso un flashback, un’immagine, un
ricordo, ma evocandolo solamente nei dialoghi sbiaditi tra gli anziani
protagonisti. L’unica scena realmente forte, finale a parte, ovvero l’incontro-scontro
di Zev con il fanatico sbirro neonazista, evidente sottoprodotto di una cultura
delirante incline all’intolleranza e al degrado morale, è anche la più debole
del film. Il suo contrappunto, il colloquio con il tedesco omosessuale in fin di
vita, è invece un momento alto, la sincera empatia di chi riesce naturalmente,
dall’alto della saggezza dell’età, ad accettare i “diversi” condividendo con
essi una sincera emozione. In definitiva ci troviamo di fronte ad un discreto
thriller di ricerca deduttiva, dall’affascinante struttura a puzzle, non
particolarmente originale ma che trova i suoi motivi d’interesse nelle buone
prove di un cast “navigato”, in cui, oltre al già citato protagonista, vanno
anche menzionati Bruno Ganz e Martin Landau.
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