lunedì 29 febbraio 2016

Platoon (Platoon, 1986) di Oliver Stone

Durante la guerra in Vietnam il soldato idealista Chris Taylor, partito volontario per dimostrare che non dovessero essere solo le classi sociali più deboli a rischiare la vita per la patria, si scontra con una terribile realtà fatta di orrore quotidiano, violenza disumana, degrado morale e perdita di ogni forma di umanità. Nel tragico scontro tra due sergenti, suoi mentori sul campo di battaglia, il sadico Barnes e l’assennato Elias, Chris perderà per sempre la sua innocenza e troverà la propria dolorosa via nell’abominio della “sporca guerra”. Celebre war movie di Oliver Stone, probabilmente il suo film più famoso, che riscosse un notevole successo di pubblico e critica, facendo incetta di premi “pesanti” alla sua uscita. Chiaramente ispirato dalle reali esperienze del regista reduce, che ha combattuto in Vietnam tra il 1967 e il 1968, è una truce requisitoria antimilitarista, intrisa di acri umori polemici verso il proprio paese e verso la retorica dell’eroismo patriottico. Il punto di vista di Chris, interpretato dal volenteroso Charlie Sheen, è, evidentemente, quello dell’autore, che si identifica con il suo protagonista, condividendone gli ideali di partenza e la successiva, inevitabile trasformazione spirituale, amaramente mossa dal disincanto e dalla necessità di sopravvivere in un ambiente efferato. Il viaggio interiore di Chris/Sheen, così come quello del personaggio interpretato da suo padre nel capolavoro assoluto Apocalypse Now di Francis Ford Coppola, è un doloroso itinerario spirituale negli abissi più cupi e primordiali della natura umana, dominati da un male così radicale da risultare privo di senso. Un itinerario definitivo, privo di appello, di ritorno e di redenzione. Ma se la prima parte del film ha una sua indubbia forza tragica, un’energia possente ed una lucida dimensione di crudele realismo, la seconda perde vigore e s’ingolfa in un pachidermico tripudio di scene madri all’insegna del più bieco sensazionalismo, la cui enfasi strumentale sfocia nella retorica negativa di stampo moralistico. Il suo limite maggiore è proprio il suo essere, spudoratamente, un film “da Oscar”, con troppo livore e troppo impeto nel suo dichiarato intento declamatorio. La legittimità del messaggio è fuori discussione, l’etica che sostiene l’operazione pure, ma il pulpito è una cosa troppo dura da digerire, anche per Hollywood. Nell’importante cast, oltre al già citato Sheen junior, vanno ricordati gli efficaci Willem Dafoe e Tom Berenger, nei panni dei due sergenti contendenti, ed un giovanissimo Johnny Depp. La pellicola vinse quattro Oscar (film, regia, montaggio e montaggio sonoro), tre Golden Globe ed il premio alla regia al Festival di Berlino. Il suo successo, esagerato ed ampiamente superiore al suo reale valore, riuscì, purtroppo, ad oscurare un’opera di ben altro rilievo e spessore, come lo splendido Full Metal Jacket, “colpevole” di essere uscito subito dopo il film di Stone, a causa dei tempi “biblici” di lavorazione tipici dei set di Stanley Kubrick.

Voto:
voto: 3/5

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