Whip
Whitaker è un esperto comandante di linee aeree civili con gravi problemi di
dipendenza da alcol e droghe. A causa di un improvviso cedimento strutturale,
durante il volo Orlando-Atlanta, si ritrova a gestire una complessa situazione
di atterraggio d’emergenza che, sebbene ubriaco, riesce a risolvere
brillantemente con un’ardita manovra di volo capovolto, rallentando così il
velivolo ed impendendogli uno schianto sulle case. Il disperato atterraggio di
fortuna ha successo e Whitaker riesce così a salvare 96 persone, tra passeggeri
e membri dell’equipaggio, a fronte di “sole” sei vittime. Malgrado la stampa lo
dipinga come un eroe, il nostro finisce sotto inchiesta e, dopo la scoperta del
suo vizio, viene sospeso dal servizio, rischiando addirittura il carcere per
omicidio colposo. Mentre la sua vita va a rotoli, Whitaker allaccia una
relazione sentimentale con l’alienata Nicole, tossica e piena di problemi
personali, cercando disperatamente di redimersi. Ma la sua battaglia è appena cominciata.
Zemeckis è sempre stato un regista garbatamente edificante ed i suoi film sono
sempre stati pedagogicamente etici, con più di una concessione al moralismo
hollywoodiano. Stavolta affronta un tema difficile e scottante, quello delle
dipendenze, e, in tutta la prima parte, ci fa sprofondare, con pochi sconti,
nell’inferno privato del protagonista, un intenso Denzel Washington, uomo di
talento in caduta libera (in tutti i sensi), abbrutito dal vizio di alcol e
droga. Senza giudicare né assolvere il suo protagonista, l’autore cerca un
equilibrio tra l’enfasi e la misura, tra l’indignazione e la compassione,
ponendosi il medesimo obiettivo di Whip: la sobrietà. E, per farlo, si affida
totalmente ad una squadra di attori in buona forma, con Kelly Reilly e Don
Cheadle ad affiancare la star Washington, protagonista assoluto. Ma non tutto
funziona bene e, specialmente nella seconda parte, la pellicola assume i
contorni del sermone retorico, con diverse cadute di stile e momenti grotteschi:
praticamente tutte le sequenze in cui è in scena John Goodman, il cui variopinto
personaggio sembra uscito direttamente da un film dei Coen ed appare totalmente
stonato con il contesto narrativo. Il colpo di grazia è poi il finale
politicamente corretto, che ribalta tutto quanto di buono era stato fatto, e
promesso, nel primo segmento di alta tenuta drammatica. Il risultato
complessivo è l’ennesima omelia moraleggiante sul tema, da sempre caro agli
americani, della seconda possibilità. Occasione sprecata.
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