giovedì 18 febbraio 2016

Flight (Flight, 2012) di Robert Zemeckis

Whip Whitaker è un esperto comandante di linee aeree civili con gravi problemi di dipendenza da alcol e droghe. A causa di un improvviso cedimento strutturale, durante il volo Orlando-Atlanta, si ritrova a gestire una complessa situazione di atterraggio d’emergenza che, sebbene ubriaco, riesce a risolvere brillantemente con un’ardita manovra di volo capovolto, rallentando così il velivolo ed impendendogli uno schianto sulle case. Il disperato atterraggio di fortuna ha successo e Whitaker riesce così a salvare 96 persone, tra passeggeri e membri dell’equipaggio, a fronte di “sole” sei vittime. Malgrado la stampa lo dipinga come un eroe, il nostro finisce sotto inchiesta e, dopo la scoperta del suo vizio, viene sospeso dal servizio, rischiando addirittura il carcere per omicidio colposo. Mentre la sua vita va a rotoli, Whitaker allaccia una relazione sentimentale con l’alienata Nicole, tossica e piena di problemi personali, cercando disperatamente di redimersi. Ma la sua battaglia è appena cominciata. Zemeckis è sempre stato un regista garbatamente edificante ed i suoi film sono sempre stati pedagogicamente etici, con più di una concessione al moralismo hollywoodiano. Stavolta affronta un tema difficile e scottante, quello delle dipendenze, e, in tutta la prima parte, ci fa sprofondare, con pochi sconti, nell’inferno privato del protagonista, un intenso Denzel Washington, uomo di talento in caduta libera (in tutti i sensi), abbrutito dal vizio di alcol e droga. Senza giudicare né assolvere il suo protagonista, l’autore cerca un equilibrio tra l’enfasi e la misura, tra l’indignazione e la compassione, ponendosi il medesimo obiettivo di Whip: la sobrietà. E, per farlo, si affida totalmente ad una squadra di attori in buona forma, con Kelly Reilly e Don Cheadle ad affiancare la star Washington, protagonista assoluto. Ma non tutto funziona bene e, specialmente nella seconda parte, la pellicola assume i contorni del sermone retorico, con diverse cadute di stile e momenti grotteschi: praticamente tutte le sequenze in cui è in scena John Goodman, il cui variopinto personaggio sembra uscito direttamente da un film dei Coen ed appare totalmente stonato con il contesto narrativo. Il colpo di grazia è poi il finale politicamente corretto, che ribalta tutto quanto di buono era stato fatto, e promesso, nel primo segmento di alta tenuta drammatica. Il risultato complessivo è l’ennesima omelia moraleggiante sul tema, da sempre caro agli americani, della seconda possibilità. Occasione sprecata.

Voto:
voto: 3/5

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