Il 16 marzo 1978, con l’eccidio di via Fani ed il rapimento dell’onorevole Aldo
Moro, la strategia della tensione da parte del terrorismo eversivo toccò il suo
apice e gli “anni di piombo” entrarono nella loro fase più tragica. I 55 giorni
di prigionia di Aldo Moro nelle mani delle Brigate Rosse, culminati con il suo
brutale assassinio, il 9 maggio 1978, furono una delle pagine più nere della
storia italiana del ‘900 e, ancora oggi, restano avvolti da un fitto mistero,
tra teorie complottistiche, leggende metropolitane e punti obiettivamente
oscuri. Dopo il cronachistico Il caso
Moro (1986) di Giuseppe Ferrara, di cui resterà principalmente la
straordinaria interpretazione del compianto Gian Maria Volontè, e lo
spettacolare, ma banale, thriller Piazza
delle Cinque Lune (2003) di Renzo Martinelli, il cinema italiano torna a
confrontarsi nuovamente con quei drammatici giorni che tennero l’intera nazione
col fiato sospeso, grazie a questo eccellente film di Bellocchio, liberamente
ispirato al libro “Il prigioniero”,
scritto dalla ex brigatista Anna Laura Braghetti. L’autore emiliano, in accordo
alla sua originalità di concezione ed al suo coraggio “polemico”, sceglie una
prospettiva differente, raccontandoci la storia, in soggettiva, dal punto di
vista femminile di Chiara, personaggio di fantasia ispirato alla Braghetti e,
forse, anche ad Adriana Faranda. Chiara è una giovane brigatista che, nella
finzione cinematografica, fu tra i carcerieri di Moro,
nell’appartamento-prigione di via Montalcini insieme a Mario Moretti (qui
chiamato Mariano), Germano Maccari (chiamato Ernesto) e Prospero Gallinari
(chiamato Primo). La donna passa dall’iniziale fede fanatica nella causa della
lotta armata ad un progressivo scetticismo, provocato dai contatti con l’uomo
Aldo Moro, fino ad una sorta di reale pentimento, culminato con il voto
contrario all’uccisione del prigioniero. Questa particolare impostazione
narrativa dà luogo ad un film emotivo, teso, vibrante, in bilico perenne tra
cronaca e finzione, storia e romanzo, realtà e sogno. La bravura del regista
sta nella grande capacità artistica di conciliare le diverse anime dell’opera:
un intenso dramma da camera (la camera è, in questo caso, la “prigione del
popolo”), un ambiguo apologo psicologico sul complesso rapporto tra prigioniero
e carceriere, una potente requisitoria politica contro l’imbelle potere
istituzionale che, a suo modo, si rese “complice” della morte del Presidente ed
un ardito racconto fantastico, denso di momenti onirici, che trova il suo
tripudio nello splendido, e visionario, finale alternativo con Moro, libero,
che vaga nelle strade deserte di Roma, alle prime luci di un’alba utopistica,
sulle memorabili note dei Pink Floyd. Non tutto funziona a dovere in questa
coraggiosa miscela di suggestioni; così alcune contrapposizioni (come quella
tra la pavida logica dello Stato ed il rigido fanatismo dei brigatisti) sono
troppo nette mentre altri segmenti appaiono come mere divagazioni, come
l’accenno di storia d’amore, platonica, tra Chiara e l’aspirante regista Enzo,
conosciuto in biblioteca, che le fa leggere la sua sceneggiatura sulla vicenda
Moro, il cui titolo coincide con quello del film. Però è impossibile negare il
fascino, l’audacia e l’originalità di una pellicola come questa, unica nel suo
genere. Il film fu premiato al Festival di Venezia come miglior sceneggiatura,
scritta dallo stesso Bellocchio, e la cosa generò molte polemiche tra i tanti
che lo ritenevano meritevole del massimo premio, che venne invece assegnato,
dalla giuria presieduta da Mario Monicelli, a Il ritorno (Vozvrašcenje)
di Andrei Zviagintsev.
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