martedì 16 febbraio 2016

Buongiorno, notte (Buongiorno, notte, 2003) di Marco Bellocchio

Il 16 marzo 1978, con l’eccidio di via Fani ed il rapimento dell’onorevole Aldo Moro, la strategia della tensione da parte del terrorismo eversivo toccò il suo apice e gli “anni di piombo” entrarono nella loro fase più tragica. I 55 giorni di prigionia di Aldo Moro nelle mani delle Brigate Rosse, culminati con il suo brutale assassinio, il 9 maggio 1978, furono una delle pagine più nere della storia italiana del ‘900 e, ancora oggi, restano avvolti da un fitto mistero, tra teorie complottistiche, leggende metropolitane e punti obiettivamente oscuri. Dopo il cronachistico Il caso Moro (1986) di Giuseppe Ferrara, di cui resterà principalmente la straordinaria interpretazione del compianto Gian Maria Volontè, e lo spettacolare, ma banale, thriller Piazza delle Cinque Lune (2003) di Renzo Martinelli, il cinema italiano torna a confrontarsi nuovamente con quei drammatici giorni che tennero l’intera nazione col fiato sospeso, grazie a questo eccellente film di Bellocchio, liberamente ispirato al libro “Il prigioniero”, scritto dalla ex brigatista Anna Laura Braghetti. L’autore emiliano, in accordo alla sua originalità di concezione ed al suo coraggio “polemico”, sceglie una prospettiva differente, raccontandoci la storia, in soggettiva, dal punto di vista femminile di Chiara, personaggio di fantasia ispirato alla Braghetti e, forse, anche ad Adriana Faranda. Chiara è una giovane brigatista che, nella finzione cinematografica, fu tra i carcerieri di Moro, nell’appartamento-prigione di via Montalcini insieme a Mario Moretti (qui chiamato Mariano), Germano Maccari (chiamato Ernesto) e Prospero Gallinari (chiamato Primo). La donna passa dall’iniziale fede fanatica nella causa della lotta armata ad un progressivo scetticismo, provocato dai contatti con l’uomo Aldo Moro, fino ad una sorta di reale pentimento, culminato con il voto contrario all’uccisione del prigioniero. Questa particolare impostazione narrativa dà luogo ad un film emotivo, teso, vibrante, in bilico perenne tra cronaca e finzione, storia e romanzo, realtà e sogno. La bravura del regista sta nella grande capacità artistica di conciliare le diverse anime dell’opera: un intenso dramma da camera (la camera è, in questo caso, la “prigione del popolo”), un ambiguo apologo psicologico sul complesso rapporto tra prigioniero e carceriere, una potente requisitoria politica contro l’imbelle potere istituzionale che, a suo modo, si rese “complice” della morte del Presidente ed un ardito racconto fantastico, denso di momenti onirici, che trova il suo tripudio nello splendido, e visionario, finale alternativo con Moro, libero, che vaga nelle strade deserte di Roma, alle prime luci di un’alba utopistica, sulle memorabili note dei Pink Floyd. Non tutto funziona a dovere in questa coraggiosa miscela di suggestioni; così alcune contrapposizioni (come quella tra la pavida logica dello Stato ed il rigido fanatismo dei brigatisti) sono troppo nette mentre altri segmenti appaiono come mere divagazioni, come l’accenno di storia d’amore, platonica, tra Chiara e l’aspirante regista Enzo, conosciuto in biblioteca, che le fa leggere la sua sceneggiatura sulla vicenda Moro, il cui titolo coincide con quello del film. Però è impossibile negare il fascino, l’audacia e l’originalità di una pellicola come questa, unica nel suo genere. Il film fu premiato al Festival di Venezia come miglior sceneggiatura, scritta dallo stesso Bellocchio, e la cosa generò molte polemiche tra i tanti che lo ritenevano meritevole del massimo premio, che venne invece assegnato, dalla giuria presieduta da Mario Monicelli, a Il ritorno (Vozvrašcenje) di Andrei Zviagintsev.

Voto:
voto: 4/5

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