Un
giovane pilota (“driver”) senza nome ha la passione per le auto con cui è
sempre a contatto: lavora come meccanico in un’officina, fa lo stuntman per il
cinema in pericolose sequenze d’incidenti automobilistici e, occasionalmente,
fa da autista per i criminali durante le rapine, sfruttando la sua abilità al
volante e la sua perfetta conoscenza delle strade di Los Angeles. Dopo
l’incontro fatale con la bionda Irene, sua vicina di casa con figlio a carico e
marito in prigione, decide di prendersi cura di loro. Ma il ritorno in libertà
del coniuge della donna darà il via ad un incontrollabile escalation di
violenza. Dal tumultuoso regista Refn arriva questo straniante noir
metropolitano, sospeso tra violenza e romanticismo, brutalità e tenerezza, che
affianca l’esplicitazione del sangue (che qui scorre a fiumi) alla ricerca di
un intimismo etereo, evocato dalla bellezza delle immagini (splendida la
fotografia “sovraesposta” di Newton Thomas Sigel) e dai silenzi del
protagonista, ben interpretato da Ryan Gosling. In una “città degli angeli”
abbacinante, sia nelle scene diurne sia in quelle notturne, si muove il
“driver” protagonista, alla ricerca dell’amore e di una “pulizia” di sentimenti
che trova riscontro solo nel volto solare e sereno di Irene (Carey Mulligan), a
cui si contrappone la violenza truce di una società sporca e brutale, popolata
da reietti senza scrupoli che si uccidono tra loro perché, letteralmente, non
sanno fare altro. Refn è un manierista forsennato, che esaspera i toni puntando
sempre all’estetizzazione suprema del gesto violento, cercando così l’essenza
attraverso la forma. E questo film, acclamato dai critici e premiato al Festival
di Cannes con il premio alla regia, non fa eccezione nel suo procedere sul filo
tra impostazione classica e sperimentazione stilistica. Ma non è tutto oro
quello che luccica: la storia è banalmente esile, quasi un pretesto al servizio
dell’iperbole stilistica, e la rilettura, operata dal regista, di un genere
consolidato e fortemente codificato come il noir, è ad alto sospetto di vezzo
autoreferenziale. Sono tuttavia innegabili i meriti dell’opera: il suo
intimismo primordiale, la sua potenza sintetica, la sua ricerca di una purezza
suprema, ancestrale, attraverso l’amore e la morte. Glaciale e teso,
cinematografico nella sua più intima essenza, è un cult per cinefili fatto di
pulsioni trattenute, che ci offre il suo lato migliore quando queste non esplodono,
ma rimangono sopite nel sottotesto, negli sguardi e nei silenzi. Ed è
impossibile non citare i momenti più alti dell’opera, in cui Refn ci regala
delle assolute perle cinematografiche: gli strabilianti titoli di testa e il
gioco di ombre, sull’asfalto, nell’epilogo. Per risparmiarci, pudicamente, ciò
che non vorremmo vedere.
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