giovedì 18 febbraio 2016

Drive (Drive, 2011) di Nicolas Winding Refn

Un giovane pilota (“driver”) senza nome ha la passione per le auto con cui è sempre a contatto: lavora come meccanico in un’officina, fa lo stuntman per il cinema in pericolose sequenze d’incidenti automobilistici e, occasionalmente, fa da autista per i criminali durante le rapine, sfruttando la sua abilità al volante e la sua perfetta conoscenza delle strade di Los Angeles. Dopo l’incontro fatale con la bionda Irene, sua vicina di casa con figlio a carico e marito in prigione, decide di prendersi cura di loro. Ma il ritorno in libertà del coniuge della donna darà il via ad un incontrollabile escalation di violenza. Dal tumultuoso regista Refn arriva questo straniante noir metropolitano, sospeso tra violenza e romanticismo, brutalità e tenerezza, che affianca l’esplicitazione del sangue (che qui scorre a fiumi) alla ricerca di un intimismo etereo, evocato dalla bellezza delle immagini (splendida la fotografia “sovraesposta” di Newton Thomas Sigel) e dai silenzi del protagonista, ben interpretato da Ryan Gosling. In una “città degli angeli” abbacinante, sia nelle scene diurne sia in quelle notturne, si muove il “driver” protagonista, alla ricerca dell’amore e di una “pulizia” di sentimenti che trova riscontro solo nel volto solare e sereno di Irene (Carey Mulligan), a cui si contrappone la violenza truce di una società sporca e brutale, popolata da reietti senza scrupoli che si uccidono tra loro perché, letteralmente, non sanno fare altro. Refn è un manierista forsennato, che esaspera i toni puntando sempre all’estetizzazione suprema del gesto violento, cercando così l’essenza attraverso la forma. E questo film, acclamato dai critici e premiato al Festival di Cannes con il premio alla regia, non fa eccezione nel suo procedere sul filo tra impostazione classica e sperimentazione stilistica. Ma non è tutto oro quello che luccica: la storia è banalmente esile, quasi un pretesto al servizio dell’iperbole stilistica, e la rilettura, operata dal regista, di un genere consolidato e fortemente codificato come il noir, è ad alto sospetto di vezzo autoreferenziale. Sono tuttavia innegabili i meriti dell’opera: il suo intimismo primordiale, la sua potenza sintetica, la sua ricerca di una purezza suprema, ancestrale, attraverso l’amore e la morte. Glaciale e teso, cinematografico nella sua più intima essenza, è un cult per cinefili fatto di pulsioni trattenute, che ci offre il suo lato migliore quando queste non esplodono, ma rimangono sopite nel sottotesto, negli sguardi e nei silenzi. Ed è impossibile non citare i momenti più alti dell’opera, in cui Refn ci regala delle assolute perle cinematografiche: gli strabilianti titoli di testa e il gioco di ombre, sull’asfalto, nell’epilogo. Per risparmiarci, pudicamente, ciò che non vorremmo vedere.

Voto:
voto: 4/5

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