sabato 20 febbraio 2016

King Of New York (King Of New York, 1990) di Abel Ferrara

Il gangster Frank White esce di prigione, installa il suo quartier generale all’Hotel Plaza di New York e riprende le sue lucrose attività di boss della droga. Profondamente cambiato nell’animo, si pone il nobile scopo di finanziare la costruzione di un ospedale nel Bronx, il degradato quartiere in cui è nato. Ma le altre bande criminali ed una squadra di poliziotti violenti gli si mettono contro, dando vita a una sanguinosa faida. Cupo noir metropolitano di Abel Ferrara, un film notturno per ambientazioni, tematiche e senso intimo, ma anche cosparso da spruzzi di sottile malinconia. Esteticamente sontuoso e ricercato, ai limiti del manierismo, fonde la materia grezza dei “b-movies” violenti, particolarmente amati dal sanguigno regista newyorkese, con una cinica “follia” visionaria di alto spessore drammatico, che conferisce all’opera un senso quasi “sacrale”. Teso, asciutto, glaciale, totalmente indipendente ed anticonvenzionale, in accordo allo spirito del suo autore, questo ruvido viaggio nel mondo della mala americana ha l’aspetto di un incubo lucido in chiaro scuro, grazie al contrasto tra gli ambienti tetri ed il candido pallore del volto emaciato del suo “vampiresco” protagonista, interpretato con straordinaria carica ambigua da Christopher Walken, in una delle migliori performance della sua carriera. Il personaggio di Frank White è una sorta di allucinato principe machiavellico, una creatura della notte che ambisce a diventare il re del crimine newyorkese per poi ritagliarsi un ruolo di oscuro “paladino” dei diseredati della “grande mela”, disposto a tutto pur di portare a termine il proprio disegno. Abel Ferrara è uno di quei registi che ha contribuito enormemente a definire le coordinate del cinema indipendente d’oltre oceano, mostrandoci sempre, nelle sue opere, l’anima nera del suo paese, gli Stati Uniti, e della sua città, New York. Dei tanti momenti alti di questa pellicola, quello più memorabile è il drammatico finale aspramente beffardo, all’insegna di un disincanto tanto amaro quanto coerente con lo spirito dell’opera. Il male è irriducibile, sembra dirci l’autore, ed il confine tra lecito e illecito è così sottile da apparire spesso indistinguibile. E stavolta non c’è neanche la presenza della fede come possibile appiglio. Nella filmografia di Ferrara questo è uno dei vertici assoluti, un’opera che resterà.

Voto:
voto: 4,5/5

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