Mickey
e Mallory Knox sono due anime perse, giovani, disadattati e innamorati, che
vanno in giro per il Southwest americano uccidendo selvaggiamente, senza alcun
apparente motivo, chiunque gli capiti a tiro. Grazie all’insana enfasi data dai
media alle loro azioni, i due diventano dei macabri “eroi” popolari, colpendo
la fantasia di molti giovani per il fascino morboso del loro spirito ribelle.
Dopo essersi lasciati dietro una lunga scia di sangue e violenze con ben 54
omicidi, Mickey e Mallory saranno arrestati, ma l’invadenza dei media fornirà
loro l’occasione per altre imprese efferate. Basato su uno script iniziale di
Quentin Tarantino, Assassini Nati è
un’allucinata e psichedelica parabola sulla violenza e sull’influenza dei mass
media nella nostra società. Stilisticamente esagitato, psichedelico e
abbagliante, per la sua capacità di mescolare i più disparati elementi
figurativi, oscillando costantemente tra il kitsch e il geniale, fu uno dei
film più controversi degli anni ’90 e dell’intera filmografia di Oliver Stone.
Il soggetto iniziale di Tarantino prevedeva un mix frenetico di azione, ultra-violenza,
dialoghi surreali, riferimenti avantpop,
nonché la consueta destrutturazione temporale, in accordo agli stilemi tanto
cari al regista del Tennessee. Oliver Stone stravolse quasi del tutto la
sceneggiatura originaria, focalizzandosi totalmente sul perverso rapporto tra violenza
e mass media, che si alimentano a vicenda in un sordido gioco, usandosi l’un
l’altro per i propri scopi. Ciò suscito le ire di Tarantino, che prese
pubblicamente le distanze dal prodotto finale, facendo cancellare il proprio
nome dai crediti. Alla sua uscita il film (premiato al Festival di Venezia con
il Premio speciale della giuria) divise critica e pubblico, soprattutto per i
contenuti violenti, per lo stile audace e visionario e per la veemente critica
ai mezzi di informazione, al punto che taluni gridarono al capolavoro, mentre
altri al flop. Chiaramente influenzato da Cuore
Selvaggio di Lynch, Stone sceglie la via dell’antirealismo e
dell’enfasi per attuare la sua violenta critica sociale attraverso un’estetica
allucinata, manierista, basata su immagini di
elettrica follia visiva, mescolando
le più disparate forme espressive, sia visive sia musicali, in un cocktail
stroboscopico che “obbliga” il pubblico ad un notevole sforzo percettivo. Così passiamo
rapidamente attraverso riprese sghembe, movimenti di macchina vorticosi,
inserti in bianco e nero, immagini sgranate e fuori fuoco in stile amatoriale,
videoclip sgargianti in stile MTV, macchie di colore, visioni subliminali
deliranti, cartoni animati, atmosfere oniriche, utilizzo schizoide del rallenti
e persino una sitcom (!). Anche dal punto di vista musicale l’approccio è lo
stesso e si spazia, senza ritegno, tra sacro e profano: da Puccini a Peter
Gabriel, da Patti Smith a Diamanda Galas, fino al grande Leonard Cohen. Per
questo film l’autore utilizzò persino i più diversi formati di pellicola (35mm,
16mm, super 8mm, fino al VHS) ed un montaggio frenetico che non concede tregua,
al punto che molti ne hanno paragonato la visione ad un giro sulle montagne
russe. Il risultato finale è un immane esercizio di stile, ipercinetico,
abbagliante, diseguale, retorico, denso di folli virtuosismi e di cadute di
stile, che lascia lo spettatore attonito e che sembra cercare un senso estetico
al di là del film stesso. Il punto debole è che Stone cade (volontariamente?)
nello stesso errore che qui intende denunciare, ovvero la spettacolarizzazione
della violenza per fini mediatici, finendone, a sua volta, fagocitato come il
serpente che si morde la coda, in un paradosso logicamente inestricabile. Nel
ricco cast spiccano Juliette Lewis, perfettamente a suo agio nel ruolo della “bad girl” che alterna fragilità e
perversione, brutalità e romanticismo, e Robert Downey Jr nel ruolo del
giornalista allucinato, metafora emblematica della follia morbosa dei media. Tommy
Lee Jones si limita ad un ruolo parodistico, Tom Sizemore è credibile nei panni
dello sbirro sadico, mentre il protagonista Woody Harrelson è quello che
convince meno. Tra eccesso e furore stilistico Stone manda in onda la violenza
dello spettacolo, in quest’opera instabile che, se non convince del tutto,
lascia sicuramente un segno nella memoria, nutrendo la sua sinistra fama con la
stessa materia oggetto della narrazione.
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