Due vicende ambientate a
Bobbio in epoche storiche diverse, una nel ’600 e l’altra ai giorni nostri.
Nella prima un militare a cavallo, Federico, arriva in un convento per
riscattare la memoria del fratello prete, morto suicida per la vergogna di aver
ceduto alla passione carnale nei confronti della giovane suora Benedetta.
L’uomo è evidentemente combattuto tra la volontà di riabilitare il fratello e
l’onore familiare ed una possente attrazione sessuale verso le donne, che
presto esploderà nei confronti della stessa Benedetta, pur sottoposta alle
angherie dell’inquisizione cattolica del tempo, con tanto di processo, torture,
umiliazioni e disumana condanna ad essere murata viva. Nella seconda vicenda il
Federico di oggi è un millantatore che si spaccia per ispettore ministeriale e
che, accompagnato da un pittoresco milionario russo, bussa alla porta dello
stesso convento, ormai dismesso ed affidato a un custode, per cercare di
comprarlo. Ma nell’antico cenobio abita in segreto un vecchio e misterioso
conte, che, da anni, ha scelto di fuggire dalla vita sociale ed esce solo di
notte, aggirandosi per le strade del paese dove incontra stravaganti personaggi,
che sembrano tenere le fila dell’arcaico ordine sociale del piccolo borgo
emiliano. Con questo dramma elusivo, arcano, affascinante ed orgogliosamente
autonomo, Bellocchio torna a parlarci dei suoi temi e, soprattutto, del suo
mondo, quella Bobbio eretta a simbolo estensivo, limitato ma non limitante, di
un processo umano più ampio, che passa per la Storia ma utilizza il linguaggio delle metafore,
ermetiche ed inquietanti, e si condensa nello stile asciutto di una “biografia”
sperimentale, libera da qualunque pretesa di verosimiglianza. Con il tempo lo
sguardo ribelle dell’autore è diventato più cinico, mai bonario, sempre
affilato, ma più maturo, capace di conciliare lo spirito di un narratore di
razza, l’impudenza di un dissidente e l’analisi critica di un arguto
osservatore del mondo, in grado di asciugare l’enfasi per mirare all’essenza,
declinando liberamente le proprie convinzioni senza più badare al consenso
generale o alla facilità di esposizione. In questo melodramma trattenuto il
regista mescola, arditamente, la monaca di Monza con il registro grottesco di
una surreale commedia nera, inteso, evidentemente, a criticare, nella seconda
parte, la grossolana invadenza del Nuovo che travolge e stravolge il Vecchio
ordine delle cose. L’eleganza sacrale del silenzio contrapposta al chiasso
assordante del rumore. Il risultato, forse spiazzante ma di indubbia
fascinazione intellettuale, è una sfuggente “sineddoche” di corsi e ricorsi
umani, in cui la figura femminile, fonte di passione, struggimento e
dannazione, è l’assoluta protagonista: centrale, potente, addirittura
dirompente in un meraviglioso finale di grande forza evocativa. Chi ha bollato
questo film come opera criptica ed inconcludente, non ne ha colto i lampi di genio,
la sontuosa bellezza di alcune sequenze magnifiche come la “tortura” di
Benedetta nel fiume o il già citato epilogo, e, soprattutto, ne ha ignorato
l’alta libertà espressiva e l’estremo rigore formale, segni evidenti di
rilevante statura artistica. I punti di debolezza risiedono, piuttosto, nella (voluta?)
disomogeneità tra l’austero splendore del segmento seicentesco ed alcuni
momenti “goffi” di quello contemporaneo, evidentemente volti a stigmatizzare
l’eterno provincialismo italiano. Ma Bellocchio riconferma il suo talento, il
suo vigore laico, coraggioso e puntiglioso nell’analisi sociale, in cui
l’antica veemenza polemica sessantottina si è trasformata in una più misurata capacità
critica di coniugare storia, cronaca ed autobiografismo, con un occhio sempre
aperto sul presente e l’altro sul passato.
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