domenica 14 febbraio 2016

Sangue del mio sangue (Sangue del mio sangue, 2015) di Marco Bellocchio

Due vicende ambientate a Bobbio in epoche storiche diverse, una nel ’600 e l’altra ai giorni nostri. Nella prima un militare a cavallo, Federico, arriva in un convento per riscattare la memoria del fratello prete, morto suicida per la vergogna di aver ceduto alla passione carnale nei confronti della giovane suora Benedetta. L’uomo è evidentemente combattuto tra la volontà di riabilitare il fratello e l’onore familiare ed una possente attrazione sessuale verso le donne, che presto esploderà nei confronti della stessa Benedetta, pur sottoposta alle angherie dell’inquisizione cattolica del tempo, con tanto di processo, torture, umiliazioni e disumana condanna ad essere murata viva. Nella seconda vicenda il Federico di oggi è un millantatore che si spaccia per ispettore ministeriale e che, accompagnato da un pittoresco milionario russo, bussa alla porta dello stesso convento, ormai dismesso ed affidato a un custode, per cercare di comprarlo. Ma nell’antico cenobio abita in segreto un vecchio e misterioso conte, che, da anni, ha scelto di fuggire dalla vita sociale ed esce solo di notte, aggirandosi per le strade del paese dove incontra stravaganti personaggi, che sembrano tenere le fila dell’arcaico ordine sociale del piccolo borgo emiliano. Con questo dramma elusivo, arcano, affascinante ed orgogliosamente autonomo, Bellocchio torna a parlarci dei suoi temi e, soprattutto, del suo mondo, quella Bobbio eretta a simbolo estensivo, limitato ma non limitante, di un processo umano più ampio, che passa per la Storia ma utilizza il linguaggio delle metafore, ermetiche ed inquietanti, e si condensa nello stile asciutto di una “biografia” sperimentale, libera da qualunque pretesa di verosimiglianza. Con il tempo lo sguardo ribelle dell’autore è diventato più cinico, mai bonario, sempre affilato, ma più maturo, capace di conciliare lo spirito di un narratore di razza, l’impudenza di un dissidente e l’analisi critica di un arguto osservatore del mondo, in grado di asciugare l’enfasi per mirare all’essenza, declinando liberamente le proprie convinzioni senza più badare al consenso generale o alla facilità di esposizione. In questo melodramma trattenuto il regista mescola, arditamente, la monaca di Monza con il registro grottesco di una surreale commedia nera, inteso, evidentemente, a criticare, nella seconda parte, la grossolana invadenza del Nuovo che travolge e stravolge il Vecchio ordine delle cose. L’eleganza sacrale del silenzio contrapposta al chiasso assordante del rumore. Il risultato, forse spiazzante ma di indubbia fascinazione intellettuale, è una sfuggente “sineddoche” di corsi e ricorsi umani, in cui la figura femminile, fonte di passione, struggimento e dannazione, è l’assoluta protagonista: centrale, potente, addirittura dirompente in un meraviglioso finale di grande forza evocativa. Chi ha bollato questo film come opera criptica ed inconcludente, non ne ha colto i lampi di genio, la sontuosa bellezza di alcune sequenze magnifiche come la “tortura” di Benedetta nel fiume o il già citato epilogo, e, soprattutto, ne ha ignorato l’alta libertà espressiva e l’estremo rigore formale, segni evidenti di rilevante statura artistica. I punti di debolezza risiedono, piuttosto, nella (voluta?) disomogeneità tra l’austero splendore del segmento seicentesco ed alcuni momenti “goffi” di quello contemporaneo, evidentemente volti a stigmatizzare l’eterno provincialismo italiano. Ma Bellocchio riconferma il suo talento, il suo vigore laico, coraggioso e puntiglioso nell’analisi sociale, in cui l’antica veemenza polemica sessantottina si è trasformata in una più misurata capacità critica di coniugare storia, cronaca ed autobiografismo, con un occhio sempre aperto sul presente e l’altro sul passato.

Voto:
voto: 4/5

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