giovedì 25 febbraio 2016

E Johnny prese il fucile (Johnny Got His Gun, 1971) di Dalton Trumbo

Il soldato americano Johnny Bonham, impegnato sul fronte francese durante la “grande guerra”, viene gravemente ferito da un colpo di cannone, perdendo così braccia,  gambe e parte del viso. Ridotto ad un immobile troncone di carne sofferente, ma ancora ben vigile nell’animo e nella mente, chiede invano ai medici, che lo usano come cavia per esperimenti che potrebbero aiutare altri feriti, di poter ottenere la “liberazione” attraverso la morte. Ma i cinici dottori non lo accontentano, perché lo ritengono scientificamente importante e si rifiutano persino di rendere pubblico il suo caso, temendo di scioccare l’opinione pubblica. Johnny diventa così l’emblema assurdamente tragico della guerra, ovvero il più insensato atto mai commesso dalla specie umana. Agghiacciante requisitoria antimilitarista in forma di incubo surreale, è una delle più intense, disperate e pietose arringhe contro la guerra mai viste sul grande schermo. Scritto e diretto con contagiosa partecipazione emotiva da Dalton Trumbo, uno dei più grandi sceneggiatori americani, pensatore libero e uomo impavido, finito inopinatamente vittima della terribile “caccia alle streghe” indetta dal maccartismo contro la paura del comunismo, è il primo e unico film da lui diretto. E’ un’opera angosciante, un autentico manifesto del pacifismo da mostrare a tutti i sostenitori della retorica militare dell’eroismo patriottico. Funziona a due livelli: uno realistico, in bianco e nero, che ci mostra la straziante realtà quotidiana del povero Johnny, spezzato nel corpo e nello spirito, ed uno onirico, a colori, in cui i sogni, i ricordi e le speranze del protagonista prendono la forma di inserti surreali, sospesi tra l’orrido e il sublime, il visionario ed il kitsch. In questi segmenti fantastici, per i quali il regista si avvalse dei consigli di Luis Buñuel, non tutto funziona sempre a dovere perchè, a volte, l’apparato metaforico risulta troppo enfatico, finendo per  scadere in uno sterile simbolismo autoreferenziale. Al di là di ogni critica mossa alla pellicola dai numerosi detrattori, probabilmente influenzati dall’astio verso la scomoda figura dell’autore, è innegabile che si tratta di un pezzo di cinema coraggioso, irripetibile ed unico nel suo genere, a metà strada tra Tod Browning e Lewis Milestone. Scomodo, destabilizzante e complesso, è un figlio legittimo ed autorevole della sua epoca, quegli anni ’70 pervasi dallo spirito trasgressivo e dalla delusione per la caduta delle utopie sessantottine. Fu premiato al Festival di Cannes, dai sempre anticonformisti “cugini” francesi, con il Premio Speciale della Giuria, ma venne generalmente snobbato dal pubblico mainstream. Negli anni ’80 ritornò in auge grazie ad un pezzo dei Metallica, lo strepitoso “One”, chiaramente ispirato al film, di cui utilizzò anche diverse sequenze emblematiche nel videoclip. Il successo del brano musicale fece da traino al film di Trumbo, inopinatamente caduto nell’oblio, facendolo diventare, giustamente, un cult quasi obbligatorio nei percorsi cinematografici underground. Va recuperato e rivalutato, non solo come testimonianza accorata di un modo di fare cinema ormai scomparso, ma, soprattutto, come vibrante inno alla vita, come atto d’accusa contro le disumane logiche del potere (militare ma anche scientifico) e come monito universale contro la guerra. Contro tutte le guerre. In tal senso è un film senza tempo.

Voto:
voto: 4/5

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