Il
soldato americano Johnny Bonham, impegnato sul fronte francese durante la
“grande guerra”, viene gravemente ferito da un colpo di cannone, perdendo così
braccia, gambe e parte del viso. Ridotto
ad un immobile troncone di carne sofferente, ma ancora ben vigile nell’animo e
nella mente, chiede invano ai medici, che lo usano come cavia per esperimenti
che potrebbero aiutare altri feriti, di poter ottenere la “liberazione”
attraverso la morte. Ma i cinici dottori non lo accontentano, perché lo
ritengono scientificamente importante e si rifiutano persino di rendere
pubblico il suo caso, temendo di scioccare l’opinione pubblica. Johnny diventa
così l’emblema assurdamente tragico della guerra, ovvero il più insensato atto
mai commesso dalla specie umana. Agghiacciante requisitoria antimilitarista in
forma di incubo surreale, è una delle più intense, disperate e pietose arringhe
contro la guerra mai viste sul grande schermo. Scritto e diretto con contagiosa
partecipazione emotiva da Dalton Trumbo, uno dei più grandi sceneggiatori
americani, pensatore libero e uomo impavido, finito inopinatamente vittima
della terribile “caccia alle streghe” indetta dal maccartismo contro la paura
del comunismo, è il primo e unico film da lui diretto. E’ un’opera angosciante,
un autentico manifesto del pacifismo da mostrare a tutti i sostenitori della
retorica militare dell’eroismo patriottico. Funziona a due livelli: uno
realistico, in bianco e nero, che ci mostra la straziante realtà quotidiana del
povero Johnny, spezzato nel corpo e nello spirito, ed uno onirico, a colori, in
cui i sogni, i ricordi e le speranze del protagonista prendono la forma di
inserti surreali, sospesi tra l’orrido e il sublime, il visionario ed il
kitsch. In questi segmenti fantastici, per i quali il regista si avvalse dei
consigli di Luis Buñuel, non tutto funziona sempre a dovere perchè, a volte,
l’apparato metaforico risulta troppo enfatico, finendo per scadere in uno sterile simbolismo
autoreferenziale. Al di là di ogni critica mossa alla pellicola dai numerosi detrattori,
probabilmente influenzati dall’astio verso la scomoda figura dell’autore, è
innegabile che si tratta di un pezzo di cinema coraggioso, irripetibile ed
unico nel suo genere, a metà strada tra Tod Browning e Lewis Milestone.
Scomodo, destabilizzante e complesso, è un figlio legittimo ed autorevole della
sua epoca, quegli anni ’70 pervasi dallo spirito trasgressivo e dalla delusione
per la caduta delle utopie sessantottine. Fu premiato al Festival di Cannes,
dai sempre anticonformisti “cugini” francesi, con il Premio Speciale della Giuria,
ma venne generalmente snobbato dal pubblico mainstream. Negli anni ’80 ritornò
in auge grazie ad un pezzo dei Metallica, lo strepitoso “One”, chiaramente
ispirato al film, di cui utilizzò anche diverse sequenze emblematiche nel
videoclip. Il successo del brano musicale fece da traino al film di Trumbo,
inopinatamente caduto nell’oblio, facendolo diventare, giustamente, un cult
quasi obbligatorio nei percorsi cinematografici underground. Va recuperato e
rivalutato, non solo come testimonianza accorata di un modo di fare cinema
ormai scomparso, ma, soprattutto, come vibrante inno alla vita, come atto d’accusa
contro le disumane logiche del potere (militare ma anche scientifico) e come
monito universale contro la guerra. Contro tutte le guerre. In tal senso è un
film senza tempo.
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