C'è un luogo in Giappone, alle falde del monte Fuji, conosciuto come "Jukai" (letteralmente, "mare di alberi"). Una sorta di purgatorio in terra, tristemente noto con il nefasto soprannome di "bosco dei suicidi" perchè sono in tanti ogni anno che vi si recano per darsi la morte. Questo luogo estremo e (secondo le credenze orientali) mistico, è la foresta di Aokigahara, in cui Gus Van Sant, il più hollywoodiano dei cineasti indipendenti d'oltre oceano, ha scelto di ambientare il suo lungometraggio n. 16, partendo da una sceneggiatura di Chris Sparling. La trama è semplice, quasi pretestuosa alla messa in scena di un labirintico viaggio metaforico, più interiore che esteriore, al confine tra la vita e la morte, in cui l'Uomo interroga sè stesso sul fine (e sul senso) del suo percorso esistenziale, tra dolore, sensi di colpa, smarrimento e cupio dissolvi di natura purificatrice. L'americano Arthur Brennan, disperato per la tragica morte dell'amata moglie Joan, decide di togliersi la vita e si reca ad Aokigahara per compiere l'insano gesto. Una volta entrato nella spettrale boscaglia, incontra un'altra anima persa come lui, il giapponese Takumi Nakamura, che per lavare l'onta del disonore di un licenziamento, intende uccidersi nella foresta. In questo esilio spirituale i due uomini condividono il percorso, imparano qualcosa l'uno dall'altro e si abbandonano a riflessioni, ricordi, affanni e ripensamenti. La morte è sempre stato un tema dominante del cinema di Gus Van Sant e, in questo cupo melodramma allegorico, l'intento del regista era quello di tracciarne una sorta di parabola ieratica definitiva, quasi a voler apporre una simbolica pietra miliare nella sua filmografia. Ma è difficile trovare tutto questo, e persino l'abituale talento narrativo dell'autore, in questo film incerto, claudicante, troppo enfatico nei suoi passaggi sentimentali e troppo poco astratto nell'essenza per ergersi a trattato speculativo sul concetto di "ultimo viaggio". Esattamente come i due protagonisti (Matthew McConaughey e Ken Watanabe), lo spettatore si trova a vagare in un dedalo nebbioso di suggestioni, flashback e metafore, che non è sorretto da un solido impianto concettuale o da una spina dorsale metafisica capace di renderlo creativo, poetico o simbolicamente pregno. Si procede, invece, per affastellamento di "visioni", alternate a indulgenze melense, senza mai trovare veramente la convergenza figurativa tra lo spazio esterno (la foresta) e quello interiore (l'animo tormentato del protagonista). Da dimenticare la banalissima "traduzione" italiana del titolo originale.
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