martedì 30 maggio 2023

Mona Lisa and the Blood Moon (2021) di Ana Lily Amirpour

Mona Lisa Lee è una giovane asiatica chiusa in una clinica psichiatrica di New Orleans, costantemente sedata e bloccata da una camicia di forza. In una notte di plenilunio in cui un'eclissi tinge la luna di toni vermigli, la ragazza si ridesta e prende coscienza dei suoi poteri telepatici che le consentono di manipolare con la forza della mente cose e persone. Grazie ad essi Lisa evade dal manicomio prigione e si disperde tra le luci, i colori, i suoni, le strade e la vita del caratteristico quartiere creolo della grande città della Louisiana. Curiosa, affascinata e disorientata, la nostra s'imbatte in diversi personaggi, tra cui la stripper Bonnie Belle, donna tosta e pragmatica con un figlio da crescere, che l'accoglie in casa e intuisce subito come sfruttarne il grande potenziale. Ma uno zelante detective segue le tracce della fuggitiva come un segugio ed è pronto a rovinare i piani di Bonnie. Il terzo lungometraggio della talentuosa Ana Lily Amirpour, britannica di origini iraniane, da lei scritto e diretto, è un thriller avventuroso fantastico di grande pregio estetico, visivamente abbagliante, di ammaliante stilizzazione figurativa e coerentemente in linea con l'idea di cinema dell'autrice: un vivace caleidoscopio di generi, suggestioni, citazioni e influenze per generare un ibrido accattivante, declinato al femminile, narrativamente elusivo quanto tematicamente inclusivo nel tratteggiare un composito ritratto surreale fatto di storie al limite e personaggi al margine, anime perse alla deriva in un mondo densamente pluralistico. Rispetto alle pellicole precedenti la Amirpour (che ha espressamente dichiarato di essersi ispirata ai classici del cinema d'avventura degli anni '80) sceglie un registro stilistico più leggero per questa favola gotica al neon, attenua le allegorie ma non dimentica i graffi politici all'America delle discriminazioni e del "Dio denaro". E soprattutto, sempre sotto l'egida maestra del "female power", continua a parlarci di diversità, di integrazione, di tolleranza e della necessità della molteplicità. Lo smarrimento, tenero e intenso, delle sue protagoniste è il medesimo sentire (autobiografico) di una straniera di fronte ad un paese immenso, affascinante e spaventoso come l'America, che ci accoglie e ci respinge, che ci guarda ma non ci vede, e che rende difficile la connessione tra esseri umani, specialmente se questi sono al di fuori dei ranghi "omologati". E' un cinema di vibrazioni quello di Ana Lily Amirpour, sempre attraversato da una tensione quasi elettrica che utilizza la lente del fantastico per distorcere la prospettiva e raccontare la realtà di un'umanità "randagia" sotto forma di parabola magica, mescolando miseria e incanto, orrore e meraviglia. Menzione speciale per la fotografia abbacinante di Paweł Pogorzelski e per le magnifiche interpreti femminili: Jeon Jong-seo e la piacevole sorpresa Kate Hudson che, sebbene nel ruolo di una spogliarellista, riesce finalmente a superare il limite della sua fisicità, lasciandosi alle spalle i tanti ruoli da bella svampita delle commedie frivole, per regalarci un personaggio sincero e tridimensionale. E cos'è questo se non un paradosso benedetto da una luna rosso sangue, che prodigiosamente risplende in un cielo mago e che può rendere possibili i sogni? Almeno per la durata di una lunga e incantata notte.

Voto:
voto: 4/5

Melissa P. (2005) di Luca Guadagnino

Melissa, sedicenne siciliana timida ma molto curiosa rispetto ai turbamenti sessuali che prova, vive a Catania con una madre anaffettiva ed un padre sempre assente per lavoro. I suoi "complici" sono la vivace nonna Elvira ed il suo diario, su cui annota quotidianamente i pensieri e i desideri più intimi. E' da sempre innamorata del compagno di scuola Daniele, con il quale conosce per la prima volta il sesso, ma ricavandone delusione e umiliazione. Ferita nell'orgoglio, Melissa cade in una pericolosa deriva autodistruttiva, concedendosi a più uomini (anche maturi) alla ricerca del piacere, ma anche in una inconscia forma di "punizione". Questo dramma erotico, secondo lungometraggio del palermitano Luca Guadagnino, è tratto dal pruriginoso e (si dice) autobiografico romanzo "Cento colpi di spazzola prima di andare a dormire" di Melissa Panarello, che all'uscita del libro si firmava con lo pseudonimo Melissa P. per mantenere un alone di mistero e di riserbo. Tra scandali sinceri e/o ruffiani, il libro, che di certo non concorrerà mai per il Pulitzer o suoi analoghi, è un racconto furbetto realizzato ad arte per creare un "caso", far leva sulla curiosità e sul voyeurismo del pubblico e vendere il più possibile. Obiettivo raggiunto: fu un best-seller dell'anno 2003 con circa due milioni di copie vendute in oltre 40 paesi. L'attrice Francesca Neri, memore dei suoi esordi con Bigas Luna, Le età di Lulù (Las edades de Lulú, 1990), fu la prima a fiutare l'occasione di crearne anche un business cinematografico, e decise di produrre il film insieme a Claudio Amendola (che all'epoca era suo marito). Chi conosce (e apprezza) la cinematografia di Guadagnino non potrà fare a meno di cospargersi il capo di cenere guardando questa pellicola insulsa, fasulla, spudoratamente commerciale, pedantemente moralista e scaltramente morbosa, appositamente congegnata per "scandalizzare" i benpensanti e, quindi, incassare. Ma, alla fine, non è riuscito a fare nemmeno quello, raddoppiando a malapena il budget speso e dimostrando che, a volte, il pubblico è ben più intelligente di quello che si pensa. Manca completamente la sensualità, l'erotismo è degno delle peggiori "commedie scollacciate" italiane degli anni '70, situazioni e dialoghi sono all'insegna del più bieco stereotipo, ogni possibile ricerca di analisi psicologica o sociale sul fenomeno della sessualità giovanile risulta non pervenuta, l'eventualità di un racconto di formazione identitario naufraga miseramente e, "dulcis in fundo", il finale catartico è sciocco, bacchettone e melenso. Nonostante la buona scelta della protagonista (la spagnola María Valverde), l'indovinata invenzione del personaggio della nonna liberale (Geraldine Chaplin) e la presenza nel cast (sebbene in ruoli minori) di bravi interpreti come Claudio Santamaria, Elio Germano o Alba Rohrwacher, il regista non è riuscito a sfruttarne il potenziale, finendo per sprecarli. In un'intervista del 2018, probabilmente costernato e pentito di questo passo falso di inizio carriera, Guadagnino ha detto (in sua estrema difesa) che la produzione rifiutò il suo "final cut" e, durante il montaggio, cambiò sostanzialmente il film rispetto alla sua idea originaria. Sarà tutto vero? Unica cosa da salvare dall'ecatombe generale: l'accattivante brano originale "Swan", scritto e cantato da Elisa, e composto appositamente per la colonna sonora della pellicola.

Voto:
voto: 1/5

Racconti immorali (Contes immoraux, 1973) di Walerian Borowczyk

Dramma erotico in costume scritto e diretto dal polacco Walerian Borowczyk, sagace provocatore raffinato e controverso. E' un film dalle molte tribolazioni censorie per le tante accuse di licenziosa "immoralità" che gli costarono tagli, scempi e invettive da parte dei benpensanti (soprattutto nel nostro paese), ma che, come quasi sempre accade, gli garantirono anche un notevole aumento di visibilità per la sua fama di opera "proibita". Consta di 4 episodi indipendenti, di cui 3 ambientati nel passato e uno contemporaneo al periodo della sua uscita, tutti aventi come elemento comune la sessualità, anche nelle sue declinazioni più estreme. 1) "Erzesbet Báthory": ambientato nel '600, racconta le malefatte della sadica contessa ungherese (realmente esistita) che si dilettava in orge e baccanali, durante le quali uccideva vergini fanciulle adolescenti per poi raccoglierne il sangue in grosse vasche, in cui usava fare lunghe abluzioni, per piacere morboso e per la convinzione che questa macabra pratica avrebbe mantenuto il suo corpo eternamente giovane. 2) "Teresa filosofa": sul finire dell'800 una giovinetta viene chiusa per punizione in un sottoscala da una rigida governante. Qui trova un libro dal contenuto erotico e scopre i piaceri della carne attraverso la masturbazione. 3) "La marea": negli anni '70, su una spiaggia della Normandia, una ragazza di 16 anni viene iniziata ai "giochi" sessuali dal cugino ventenne. 4) "Lucrezia Borgia": sul finire del 1400, mentre il frate Girolamo Savonarola denuncia i costumi dissoluti largamente presenti in Vaticano, la potente nobildonna Lucrezia Borgia intrattiene rapporti incestuosi con il padre (cardinale diventato poi papa col nome di Alessandro VI) e con il fratello Cesare. Come da sua abitudine Borowczyk cerca lo scandalo per dare uno scossone al conformismo ipocrita dei moralisti e utilizza il sesso come uno strumento ideologico, allegorico e politico per affermare il valore supremo della libertà rispetto alla repressione farisea del potere. Le polemiche annesse erano inevitabili e l'autore in fondo cercava proprio quello: rendere il suo film l'emblema concreto del messaggio stesso di cui era portatore, ovvero la "vittima" ideale di un sistema oligarchico. Al netto delle diatribe pseudo-etiche (quasi sempre fasulle e opportunistiche), bisogna dire che Racconti immorali (conosciuto anche col titolo I racconti immorali di Borowczyk) è il lavoro più riuscito dell'autore, il più equilibrato e denso di senso, quello in cui meglio coesistono la provocazione, l'eleganza formale, la ricostruzione ambientale, i virtuosismi barocchi e l'estetizzazione dell'atto sessuale come forma istintiva di ribellione. La versione italiana del film è altamente sconsigliata e pressoché inguardabile: la censura ne accettò la distribuzione soltanto nel 1976,  tagliandone ben 13 minuti sui 104 totali, modificandone l'ordine degli episodi, intervallandoli con frammenti tratti dal documentario Una Collezione Particolare (cortometraggio realizzato da Borowczyk nel 1973) ed aggiungendo una posticcia voce fuori campo che fa da improbabile commento ironico, allo scopo di attenuare l'effetto delle scene più "sconvenienti". Guardarlo in questo modo non serve a nulla, anzi è addirittura offensivo nei confronti del regista, del cinema inteso come forma d'arte e dell'intelligenza degli spettatori. Da recuperare, per gli eventuali interessati, unicamente la versione originale (ed integrale) in lingua francese. Contrariamente a quello che molti credono, soltanto il terzo episodio ("La marea") è tratto da un racconto dello scrittore drammaturgo André Pieyre de Mandiargues. Nel cast spicca Paloma Picasso (figlia del celebre pittore Pablo), che ci regala una Báthory agghiacciante e indimenticabile.

Voto:
voto: 3,5/5

lunedì 29 maggio 2023

Finale a sorpresa - Official Competition (Competencia oficial, 2021) di Mariano Cohn , Gastón Duprat

Un ricco imprenditore megalomane, ancora voglioso di lasciare il segno nonostante la sua età ormai avanzata, si mette in testa di realizzare un capolavoro cinematografico che rimanga "in eterno". Per farlo non bada a spese: acquista i diritti di un romanzo scritto da un Premio Nobel, sceglie una regista (Lola Cueva) esigente e rinomata come autrice d'avanguardia e, infine, assolda due grandissimi attori, entrambi apprezzati ma difficilmente compatibili: Félix Rivero (star hollywoodiana vanitosa e celebre per film "di cassetta") e Ivàn Torres (interprete teatrale impegnato, intellettuale e snob). Per cercare di far coesistere i due "galletti" l'estrosa Lola s'inventa uno stravagante sistema che pungola di continuo il loro senso della competizione. Frizzante commedia grottesca degli inganni scritta e diretta dagli argentini Mariano Cohn e Gastón Duprat, ed interpretata da un cast eccellente in cui spiccano Penélope Cruz, Antonio Banderas e Oscar Martínez (che sembrano gareggiare a chi è più bravo esattamente come i rispettivi personaggi). E' un film divertente, graffiante, addirittura irresistibile nella prima parte per la ricchezza delle invenzioni visive e delle trovate comiche, che gioca abilmente sul confine tra realtà e finzione per tratteggiare una satira irriverente sul mondo del cinema (ma più in generale sul processo di creazione artistica), che gioca gustosamente su una lunga serie di stereotipi e di annose diatribe: cinema d'autore versus cinema commerciale, Hollywood versus Europa, teatro versus cinema, commedia versus dramma. Con un sapiente utilizzo del meta-cinema ed un continuo cambio di prospettive che tende a confondere i ruoli, quest'opera bizzarra e leggera è anche un perentorio invito alla leggerezza; non a caso i due attori rivali che battibeccano di continuo e sembrano apparentemente agli antipodi, sono, in realtà, facce opposte della stessa medaglia, perchè condividono il medesimo approccio serioso ed egocentrico. Peccato che il finale non sia all'altezza del resto e che l'opera tenda, alla lunga, ad ingolfarsi nella sua continua auto-ripetizione ellittica del gioco del virtuosismo lezioso sfumato su più livelli (e lasciamo allo spettatore più arguto il piacere di individuare quali e quanti sono).

Voto:
voto: 3,5/5

America Latina (2021) di Damiano D'Innocenzo, Fabio D'Innocenzo

Massimo è un dentista benestante di Latina che vive per il lavoro e per la famiglia (moglie e due figlie), con cui abita in una grande villa su più livelli ubicata fuori città. Conduce una vita riservata e metodica, con poche relazioni sociali, a parte il suo miglior amico Simone ed il vecchio padre con cui ha un difficile rapporto. Una sera, improvvisamente, la sua esistenza si trasforma in un incubo: sceso da solo nello scantinato della sua abitazione, l'uomo scopre qualcosa di terribile che lo sconvolge e di cui non sa darsi una spiegazione. Inizia così a sospettare che Simone, a cui lui aveva rifiutato un prestito di denaro qualche giorno prima, possa essere l'artefice dell'atroce situazione. Ma non può immaginare che i suoi guai sono soltanto all'inizio. Questo cupo thriller psicologico, scritto e diretto dai fratelli D'Innocenzo, è un film teso, angosciante e spiazzante che va guardato tutto d'un fiato e del quale meno si sa e meglio è, per non rovinarsi in alcun modo la visione. I registi romani, in gran forma, si dimostrano abilissimi nel giocare geometricamente (e metaforicamente) con gli spazi scenici (la grande casa di Massimo che, da emblema di agiatezza sociale, si trasforma in un nascondiglio di elementi spaventosi), con la prospettiva e la percezione del protagonista (in tal senso vanno sottolineati l'utilizzo avvolgente del sonoro e le stranianti immagini in soggettiva) e con il relativismo sfuggente della verità. L'utilizzo densamente evocativo di archetipi dell'horror come la cantina o il buio, sposta a tratti i confini dell'opera verso quelli della favola nera di matrice allegorica, in accordo al concetto di cinema degli autori. I quali riprendono, tra le righe della suspense crescente di questo giallo anomalo, le loro tematiche abituali già ottimamente affrontate nelle pellicole precedenti (anche se con modi e tonalità differenti): la solitudine esistenziale, la maschera fasulla del perbenismo borghese, il conformismo etico (livellato verso il basso) dell'uomo contemporaneo. Elio Germano, scelto per la seconda volta dai D'Innocenzo come protagonista a tutto tondo di una loro opera, si conferma interprete versatile, affidabile e di grande talento, autentico specialista in personaggi complessi e tormentati. Il titolo, apparentemente fuorviante come il film stesso, non ha ovviamente nulla a che vedere con il continente sud americano, ma va interpretato leggendo le due parole che lo compongono in maniera disgiunta.

Voto:
voto: 4/5

venerdì 26 maggio 2023

Senso '45 (2002) di Tinto Brass

Nel Marzo 1945, quando ormai la seconda guerra mondiale volge al termine e la disfatta di Mussolini è dietro l'angolo, Livia Mazzoni, moglie infedele di un gerarca fascista, fa un viaggio da Asolo a Venezia per raggiungere il suo amante Helmut Schultz, ufficiale nazista delle SS che l'ha irretita in un rapporto sessualmente perverso. Durante il tragitto, suddiviso in varie tappe e diversi flashback, la donna rievoca (non senza imbarazzo) le vicende del suo amore proibito. E proprio come lei tutto il mondo che le sta intorno cade in disfacimento, avviato verso un baratro inevitabile. Questo dramma storico erotico di Tinto Brass è il secondo adattamento cinematografico della breve novella "Senso" di Camillo Boito. Il primo è ovviamente l'omonimo film di Luchino Visconti del 1954, che è uno dei massimi capolavori del cinema italiano. Sarebbe inutile, impietoso e indecoroso azzardare paragoni tra le due opere, e quindi non lo faremo. E non è certo un caso che Brass decida di spostare l'azione dall'originale Risorgimento ottocentesco al periodo buio della Repubblica di Salò, pur mantenendo inalterata l'atmosfera di decadenza di un contesto storico che sta cambiando radicalmente e tragicamente. Ma, nonostante l'evidente intento di realizzare un film più serio rispetto ai suoi standard, l'autore inciampa nuovamente nel suo abituale erotismo godereccio all'amatriciana, sbilanciato verso la volgarità piuttosto che verso la sensualità. Il sesso esibito in maniera "ginecologica" e i dialoghi di rozza trivialità fanno il resto. Peccato. Perchè le musiche di Ennio Morricone sono lodevoli, così come la fotografia cupa di Daniele Nannuzzi (con alternanza di colore e bianco e nero) che incornicia degnamente la caduta rovinosa di un ideale eletto a sistema. E la protagonista Anna Galiena è attrice vera e non soltanto un corpo da esibire. Non si può dire altrettanto di Gabriel Garko, che sfoggia una chioma platinata per l'occasione: bello, torvo, dannato, ma assolutamente inespressivo. E quando Brass si fa prendere la mano e cita spudoratamente Roma città aperta (1945) di Rossellini, si capisce che la misura è stata superata. E anche il "senso".

Voto:
voto: 2/5

Nope (2022) di Jordan Peele

La famiglia afroamericana degli Haywood gestisce da tempo un ranch in California in cui addestrano i cavalli selvaggi destinati a comparire nei film di Hollywood. Dopo la strana morte del patriarca Otis, i suoi due figli, Emerald e OJ, ereditano con orgoglio l'intera attività. Ma una serie di eventi misteriosi e sconcertanti, che avvengono nell'area intorno alla fattoria, convincono OJ che una minaccia di origine aliena incomba su di loro. Sua sorella Emerald, inizialmente più scettica, dopo un improvviso blackout notturno che provoca un folle terrore in tutti i loro cavalli, comprende che OJ potrebbe avere ragione. Questo terzo lungometraggio di Jordan Peele (che lo ha prodotto, scritto e diretto) inizia con una citazione biblica enigmatica, prosegue come un moderno western e poi come una satira sarcastica sull'esclusione dei neri d'America dalla storia (in questo caso del cinema hollywoodiano), sminuendone provocatoriamente il ruolo. Quindi si trasforma in film di pura fantascienza, che stinge sempre più nell'horror, per poi deviare nuovamente verso il monster movie avventuroso. Dopo l'epilogo "acchiappa applausi", lo spettatore più attento e riflessivo potrebbe anche cogliere il senso del versetto dell'incipit, chiudendo il cerchio del ragionamento teorico che l'autore intendeva suggerire. O magari anche no, perdendosi tra i meandri e le anse di un'opera forse troppo ambiziosa, troppo caricata, che volendo a tutti i costi stupire finisce per strafare. Fin dalle interviste della première il regista ha espressamente dichiarato di essersi ispirato al cinema di Steven Spielberg degli anni '70 e '80, quello che ha creato meraviglia, paura ed emozione nell'immaginario collettivo di un paio di generazioni di spettatori. Ma se Spielberg è il "vate" putativo di questo Nope, bisogna anche dire che Peele ci aggiunge molto del suo (il black pride, il razzismo, l'ironia straniante) e si fa inconsciamente influenzare anche da opere attinenti di altri registi come J.J. Abrams o M. Night Shyamalan. Se è vero che il film diverte e intrattiene gli appassionati del genere, soprattutto nella seconda parte più agile e dinamica, e se è vero che il disvelarsi della vera natura del pericolo alieno provoca qualche brivido, va anche riconosciuto che l'abbondanza di toni, generi e suggestioni non viene gestita con il giusto equilibrio, ma anzi tende spesso a sbandare nell'accumulo caotico, con più di qualche passaggio a vuoto. E' possibile che emerga la sensazione finale che, in fondo, tutto possa essere ricondotto ad una grande metafora acida riferita allo stesso mondo del cinema (hollywoodiano), alla sua crisi, alla sua iperbole involutiva ed autodistruttiva. Peele non ha né confermato né smentito, ma l'ambiguità di lettura è sicuramente un valore aggiunto. Persino in uno spettacolo così confuso e rappreso come questo film riuscito a metà.

Voto:
voto: 3/5

Bones and All (2022) di Luca Guadagnino

Sul finire degli anni '80 l'adolescente Maren viene abbandonata al suo destino dal padre a causa della sua natura "particolare" e pericolosa. La ragazza inizia a vagare da sola per i paesi della provincia americana, vivendo nell'ombra come un fantasma nascosto agli occhi della gente. Ma ben presto incontrerà altri come lei e si renderà conto di non essere del tutto sola come credeva. Nel suo lungo viaggio per le strade di un'America minacciosa o indifferente, Maren conoscerà l'amore, il pericolo, la discriminazione, l'avventura e la violenza. Ma, soprattutto, conoscerà meglio sé stessa e quel passato che le è stato sempre negato. Dal controverso romanzo "Fino all'osso" di Camille DeAngelis, il regista palermitano Luca Guadagnino ha tratto un magnifico film on-the-road a tinte forti sulla scoperta (e la difesa ad ogni costo) della propria identità, qualunque essa sia, unica, incontrovertibile e inalienabile. Mai come in questo caso, per evitare di rovinare la visione allo spettatore interessato, eviterò ogni tipo di ulteriore dettaglio in merito alla particolare trama di questo film, che è, nello stesso tempo, un dramma, un horror, un racconto di formazione avventuroso e una grande storia d'amore. Guadagnino ritrae (incorniciandola nella suggestiva fotografia sfumata di Arseni Khachaturan) la faccia sporca, nascosta e "maledetta" di un'altra America, più che mai lontana dal suo Sogno e dall'immaginario popolare. E' l'America degli emarginati, dei derelitti, dei "diversi", degli invisibili, alla deriva nelle sterminate pianure del Midwest, un po' mostri e un po' angeli, anime errabonde che cercano di sopravvivere a qualunque costo in accordo alla propria natura. Come già aveva fatto Paolo Sorrentino in This Must Be the Place (2011), Guadagnino guarda all'America con gli occhi estranei di uno straniero in terra straniera, cercando la cruda realtà delle piccole cose piuttosto che il mito e abbracciandone il desiderio di libertà, le asprezze, gli orrori e le contraddizioni piuttosto che la tranquillizzante immagine della grande nazione che "protegge" la democrazia occidentale. L'ambientazione nell'era di Reagan, della fine della guerra fredda e dell'inizio della grande paura dell'AIDS non è affatto casuale, anzi è perfettamente in linea con il cuore intimo della storia e con lo smarrimento che l'accompagna. Una storia di ricerca dell'io fatta di amore e di morte, di sangue e di carne, di desiderio e di vergogna, a tratti feroce e disturbante, ma anche poetica e carica di senso evocativo. Stiamo parlando di vero cinema d'autore, probabilmente il miglior risultato del nostro regista in questo ambito, un cinema che non ha paura di osare e di scioccare, fatto per chi sa andare oltre le immagini di superficie, leggendo tra le pieghe e le sfumature della narrazione. Molte sono le scene memorabili, pur nella loro crudezza visiva: il primo incontro tra Maren e Sully o tra Maren e Lee, la visita alla madre, la fuga tra i campi di granturco e, ovviamente, il quasi inevitabile epilogo metaforico in cui tutto si compie. Magnifici gli attori di un cast sontuoso in cui spiccano l'intensa Taylor Russell (Maren), il luciferino Mark Rylance (Sully), il fascinoso Timothée Chalamet (Lee), ma anche interpreti come Michael Stuhlbarg, Chloë Sevigny e Jessica Harper che, pur limitandosi ad una breve apparizione, risultano incisivi e difficili da dimenticare. L'autore non resiste alla tentazione di immortalare il suo protagonista Timothée Chalamet (alla seconda collaborazione con il nostro regista) con delle iconiche riprese dal basso e con un particolare utilizzo della luce, regalandogli l'aura del divo che secondo molti è destinato a diventare. Bones and All non è sicuramente un film per tutti, probabilmente buona parte del pubblico mainstream lo troverebbe folle o disgustoso, ma è un piccolo gioiello allegorico d'essai da gustare tutto fino in fondo. Anzi, fino all'osso.

Voto:
voto: 4,5/5

La notte del 12 (La nuit du 12, 2022) di Dominik Moll

In un piccolo paese montano della Savoia francese, la notte del 12 ottobre 2016, Clara, giovane ragazza che sta rincasando dopo una festa tra amici, viene uccisa da uno sconosciuto che le compare davanti all'improvviso, la cosparge di benzina e le dà fuoco. L'intera comunità è sconvolta e nessuno riesce a dare una plausibile spiegazione all'accaduto, visto che la ragazza era conosciuta da tutti come un tipo tranquillo nello stile di vita e nelle frequentazioni abituali. Un giovane capitano di polizia, da poco giunto sul posto, inizia a indagare sul tragico caso e, ben presto, si rende conto che quello che apparentemente sembra un contesto sociale sereno e impeccabile nasconde segreti e lati oscuri. Questo solido noir poliziesco, scritto e diretto dal tedesco Dominik Moll, è tratto dal racconto d'inchiesta "18.3. Une année à la PJ" della giornalista Pauline Guéna e, come espresso chiaramente fin dai titoli iniziali, è dedicato a tutti quei casi misteriosi di delitti insoluti che rimangono senza un colpevole e poi finiscono nell'oblio. Il film di Moll è un bel thriller teso e malinconico con l'animo del polar, che esplora con la giusta asciuttezza una molteplicità di temi importanti: gli scheletri nell'armadio di un tipico ambiente provinciale, ipocrita e medio borghese, dalla facciata a prima vista irreprensibile; le difficoltà investigative delle forze di polizia che si scontrano con realtà diffidenti, omertose, o addirittura ostili; l'inadeguatezza degli strumenti legali spesso imbrigliati da pedanti regole burocratiche; il malizioso sospetto che inevitabilmente avvolge le vittime femminili rendendole, agli occhi ottusi dei bigotti, "complici" involontarie del crimine subito per colpa dei loro atteggiamenti "sconvenienti". L'autore mette al centro del racconto l'indagine in tutta la sua lunga, complessa e scoraggiante evoluzione, ed il punto di vista principale è quello del poliziotto protagonista (egregiamente interpretato da Bastien Bouillon): un uomo tenace, arguto e compassionevole, che persegue un concetto assoluto di giustizia e di razionalità, ma deve amaramente fare i conti con la realtà che lo circonda. Come in tutti i polar che si rispettino il capitano Yohan Vivès è un uomo solo, tormentato, disilluso ma non domo, che deve lottare contro un muro di gomma, contro un sistema sociale che poi ripercuote effetti anche nel suo stesso animo e persino contro i suoi stessi colleghi, che teoricamente dovrebbero trovarsi dalla stessa parte. E' esemplare, in tal senso, la sottotrama del burbero collaboratore di Vivès che affronta l'investigazione come un fatto personale, a causa dei suoi demoni interiori, finendo per essere più dannoso che utile alla causa. Ancestrali elementi simbolici come il fuoco e il buio, vengono abilmente utilizzati dal regista per porre implicitamente l'accento sugli aspetti più teorici della vicenda (che gli stanno a cuore esattamente come la povera vittima o il saldo poliziotto): la scarsa attitudine umana nell'accettare gli altrui comportamenti che non comprendiamo e la cruciale differenza tra la giustezza di un principio e la sua concreta applicazione pratica (che ovviamente deve fare i conti anche con gli interpreti chiamati ad attuarlo). Presentato in anteprima al Festival di Cannes, il film ha vinto diversi premi in patria ma ha avuto scarsa visibilità nel nostro paese.

Voto:
voto: 4/5