Sul finire degli anni '80 l'adolescente Maren viene abbandonata al suo destino dal padre a causa della sua natura "particolare" e pericolosa. La ragazza inizia a vagare da sola per i paesi della provincia americana, vivendo nell'ombra come un fantasma nascosto agli occhi della gente. Ma ben presto incontrerà altri come lei e si renderà conto di non essere del tutto sola come credeva. Nel suo lungo viaggio per le strade di un'America minacciosa o indifferente, Maren conoscerà l'amore, il pericolo, la discriminazione, l'avventura e la violenza. Ma, soprattutto, conoscerà meglio sé stessa e quel passato che le è stato sempre negato. Dal controverso romanzo "Fino all'osso" di Camille DeAngelis, il regista palermitano Luca Guadagnino ha tratto un magnifico film on-the-road a tinte forti sulla scoperta (e la difesa ad ogni costo) della propria identità, qualunque essa sia, unica, incontrovertibile e inalienabile. Mai come in questo caso, per evitare di rovinare la visione allo spettatore interessato, eviterò ogni tipo di ulteriore dettaglio in merito alla particolare trama di questo film, che è, nello stesso tempo, un dramma, un horror, un racconto di formazione avventuroso e una grande storia d'amore. Guadagnino ritrae (incorniciandola nella suggestiva fotografia sfumata di Arseni Khachaturan) la faccia sporca, nascosta e "maledetta" di un'altra America, più che mai lontana dal suo Sogno e dall'immaginario popolare. E' l'America degli emarginati, dei derelitti, dei "diversi", degli invisibili, alla deriva nelle sterminate pianure del Midwest, un po' mostri e un po' angeli, anime errabonde che cercano di sopravvivere a qualunque costo in accordo alla propria natura. Come già aveva fatto Paolo Sorrentino in This Must Be the Place (2011), Guadagnino guarda all'America con gli occhi estranei di uno straniero in terra straniera, cercando la cruda realtà delle piccole cose piuttosto che il mito e abbracciandone il desiderio di libertà, le asprezze, gli orrori e le contraddizioni piuttosto che la tranquillizzante immagine della grande nazione che "protegge" la democrazia occidentale. L'ambientazione nell'era di Reagan, della fine della guerra fredda e dell'inizio della grande paura dell'AIDS non è affatto casuale, anzi è perfettamente in linea con il cuore intimo della storia e con lo smarrimento che l'accompagna. Una storia di ricerca dell'io fatta di amore e di morte, di sangue e di carne, di desiderio e di vergogna, a tratti feroce e disturbante, ma anche poetica e carica di senso evocativo. Stiamo parlando di vero cinema d'autore, probabilmente il miglior risultato del nostro regista in questo ambito, un cinema che non ha paura di osare e di scioccare, fatto per chi sa andare oltre le immagini di superficie, leggendo tra le pieghe e le sfumature della narrazione. Molte sono le scene memorabili, pur nella loro crudezza visiva: il primo incontro tra Maren e Sully o tra Maren e Lee, la visita alla madre, la fuga tra i campi di granturco e, ovviamente, il quasi inevitabile epilogo metaforico in cui tutto si compie. Magnifici gli attori di un cast sontuoso in cui spiccano l'intensa Taylor Russell (Maren), il luciferino Mark Rylance (Sully), il fascinoso Timothée Chalamet (Lee), ma anche interpreti come Michael Stuhlbarg, Chloë Sevigny e Jessica Harper che, pur limitandosi ad una breve apparizione, risultano incisivi e difficili da dimenticare. L'autore non resiste alla tentazione di immortalare il suo protagonista Timothée Chalamet (alla seconda collaborazione con il nostro regista) con delle iconiche riprese dal basso e con un particolare utilizzo della luce, regalandogli l'aura del divo che secondo molti è destinato a diventare. Bones and All non è sicuramente un film per tutti, probabilmente buona parte del pubblico mainstream lo troverebbe folle o disgustoso, ma è un piccolo gioiello allegorico d'essai da gustare tutto fino in fondo. Anzi, fino all'osso.
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