In una Roma cupa e piovosa si intrecciano le storie di quattro persone molto diverse tra loro, ma accomunate dallo stesso male di vivere: una ex ginnasta professionista, eterna seconda, finita sulla sedia a rotelle dopo un grave infortunio; una poliziotta che non riesce a superare il dolore per la morte della figlia; un energico motivatore che sà ridare coraggio a tutti tranne che a sè stesso ed un bambino goloso di taglia forte, bullizzato dai compagni e costretto dal padre avido a diventare uno youtuber, dal successo virale grazie ai video delle sue scorpacciate. Proprio nella notte in cui i quattro stanno per cedere alla disperazione, compiendo un gesto irreparabile, un uomo misterioso gli fa visita con una strana proposta: concedergli sette giorni di tempo affinchè lui riesca a convincerli che la vita, anche se non sempre è bella, merita comunque di essere vissuta fino in fondo. Questa fiaba metropolitana dai toni dark e dai risvolti soprannaturali, 13-esimo lungometraggio del regista Paolo Genovese, è l'adattamento cinematografico dell'omonimo romanzo scritto dallo stesso autore, che si riallaccia idealmente (per stile e tematiche) al precedente The Place (2017), ampliandole però di maggiori elementi metafisici, risvolti ultraterreni e riflessioni sulla depressione esistenziale, un fenomeno sempre più diffuso nelle moderne società occidentali. Senza rivelare altro sui dettagli della trama, possiamo dire che questo film appartiene a quel filone di drammi surreali, con incursioni nel fantastico, sul tema della seconda occasione, con il quale si sono già confrontati in passato diversi autori come Patrice Leconte o Frank Capra (giusto per fare qualche nome famoso). Il vero problema di questo tipo di pellicole è quello di riuscire a sospendere l'incredulità e renderle plausibili senza eccedere in eccessi patetici, moralistici e retorici, ma portando in risalto l'aspetto umano rispetto a quello favolistico, il significato piuttosto che il significante. Genovese ci riesce solo in parte, soprattutto grazie alla bravura degli attori (Toni Servillo, Valerio Mastandrea, Margherita Buy, Sara Serraiocco ed il piccolo Gabriele Cristini), ma talvolta si perde in ridondanze, tempi morti e sequenze sull'orlo del ridicolo involontario. Ed è quasi incomprensibile il personaggio di Vittoria Puccini, totalmente inutile e sprecato in un'opera che, di contro, si prende tutto il tempo necessario per sviluppare il racconto. Decisamente meglio il finale, che contiene i momenti più riusciti ed efficaci anche in termini di trovate visive e di emozioni, risollevando il tono che si mantiene generalmente freddo e grigio per quasi tutta la durata del film. Il personaggio di Mastandrea è decisamente quello più interessante, ambiguo ed emblematico, che induce considerazioni più sottili e inquietanti sul dolor vitae che colpisce un numero sempre crescente di persone. E' evidente che Genovese, dopo il successo plebiscitario di Perfetti sconosciuti (2016), il suo film più famoso, cerca di alzare il tiro con progetti più ambiziosi e originali. Un tentativo senz'altro apprezzabile, che dovrebbe però essere supportato da maggiore asciuttezza narrativa e levità del tocco.
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