mercoledì 5 aprile 2017

Cosmopolis (Cosmopolis, 2012) di David Cronenberg

Eric Packer è un giovane milionario, ricco magnate dell’alta finanza di Wall Street, inquieto, malato di sesso e pieno di manie. Durante la visita del presidente degli Stati Uniti a New York, il nostro è deciso ad attraversare Manhattan a bordo di una limousine bianca super tecnologica, nonostante il caos che imperversa nelle strade, per recarsi dal suo parrucchiere di fiducia posto all’altro capo della città. Mentre fuori imperversano manifestazioni violente e sommosse di manifestanti no-global, Packer prosegue il suo viaggio nella calma ovattata della sua lussuosa auto, in cui incontra le sue donne, i suoi collaboratori, il suo medico privato e una serie di bizzarri personaggi. Neanche le notizie negative sui suoi affari economici e la concreta minaccia di un individuo misterioso che vuole ucciderlo riescono a fermare il percorso dell’uomo verso la sua meta, pur sapendo che forse, ad attenderlo, ci sarà proprio il suo pericoloso stalker. Dall’ostico romanzo omonimo di Don DeLillo, Cronenberg ha tratto un apologo oscuro e surreale sul destino del capitalismo nell’era della new economy. Pervaso da suggestioni sospese e situazioni stranianti, questa gelida composizione geometrica di immagini patinate ha al suo fianco un’ombra di morte e un intrinseco nonsense che intende stabilire una elitaria distanza rispetto allo spettatore. Il senso è palese anche per il pubblico meno avvezzo alle metafore del cinema d’autore: il capitalismo occidentale è un fantasma amorfo e solipsistico, alieno e autistico rispetto alle dinamiche del mondo reale, di cui ignora (e disprezza) le necessità pratiche, le regole morali, i bisogni impellenti, i problemi quotidiani. Ma più che alla critica al mondo della finanza, l’autore è principalmente interessato agli aspetti psicologici del suo tormentato protagonista, al suo vuoto interiore che lo spinge agli eccessi per trovare sé stesso nei meandri bui della psiche, tendendo quasi per inerzia verso la sua nemesi (o alter ego) che potrebbe distruggerlo o, magari, resettarlo in un nuovo inizio. In quest’opera atipica, astratta e verbosa fino allo sfinimento, quello che manca è il tocco di genio visionario del suo autore, per sublimare una materia narrativa spigolosa e asimmetrica in una lucida dimensione allegorica che vada oltre il mero trastullo autoreferenziale. Algido e inespressivo come il suo protagonista (in tal senso la coraggiosa scelta di Robert Pattinson è parsa pertinente), il film consegna la visione pessimistica che il regista ha del mondo ad un estetismo glamour che riesce appena a scalfire la patina della sua analisi cervellotica, finendo per peccare dello stesso vizio che intende denunciare. Il cast di gran livello è completato da Samantha Morton, Jay Baruchel, Paul Giamatti, Kevin Durand, Juliette Binoche, Sarah Gadon e Mathieu Amalric. Tanti grandi nomi per una pellicola segregata e irrisolta che sembra implodere nel suo stesso manierismo.

Voto:
voto: 3/5

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