lunedì 10 aprile 2017

È solo la fine del mondo (Juste la fin du monde, 2016) di Xavier Dolan

Louis è un talentuoso scrittore teatrale quarantenne, taciturno, sensibile e di orientamento omosessuale, che dopo dodici anni di assenza decide di tornare a far visita alla sua famiglia per annunciare la sua imminente morte, a causa di una malattia terminale. Una volta riunitosi con i suoi si rende presto conto che nulla è cambiato e che le dinamiche nevrotiche e le tensioni isteriche che lo avevano allontanato anni prima sono ancora le stesse. La madre Martine è petulante e bizzarra, il fratello maggiore Antoine (da sempre invidioso delle sue qualità) è aggressivo e sgarbato, la sorella minore Suzanne è affettuosa ma infelice, piena di tormenti interiori, e la cognata Catherine, mite e remissiva, appare soggiogata dall’arroganza del marito. Finissimo dramma familiare del canadese Xavier Dolan che, adattando con impietosa lucidità e asciutto rigore espressivo l’omonima pièce teatrale di Jean-Luc Lagarce, firma il suo film migliore, in magistrale equilibrio tra la malinconica elegia del non detto e il disincantato affresco introspettivo. Intenso e sardonico, nostalgico e amaro, raffinato e pudico, cupo e sfumato, è un potente apologo reticente sulla difficoltà dei rapporti umani e sulla solitudine esistenziale che inevitabilmente accompagna gli spiriti “eletti”, destinati a scontrarsi con la miseria del mondo e con il fastidioso chiasso della volgarità. Tutto il film è evidentemente accordato sul dolente personaggio di Louis (alter ego del regista), spinto con struggimento fuori dal nido da un’altezza d’animo incompatibile con il suo meschino contesto familiare, e poi tornato, sommesso figliol prodigo, nell’estremo tentativo di condividere la fine del suo mondo, facendo prevalere il sentimento sulla ragione. Il drammatico (e a suo modo eroico) silenzio di Louis è la cifra stilistica e il tocco di genio della pellicola, un silenzio disperatamente opposto all’isteria esagitata dei suoi familiari, che appaiono eccessivi e sgraziati sia nella manifestazioni d’amore che nei patetici litigi. La riflessione intimista del regista sull’istituzione familiare è sobria nei modi quanto spietata nelle conclusioni e si avvale di una messa in scena teatrale che alterna dialoghi tesi (sistematicamente presentati in coppia tra il protagonista e ciascuno degli altri personaggi) a suggestive aperture liriche, che fanno decollare le emozioni attraverso stranianti inserti musicali o un utilizzo artistico del ralenti che danno respiro al flusso dei palpiti repressi e, ribaltando la prospettiva dei primi piani strettissimi, elevano verso la poesia. Il retrogusto acre del tempo perduto, che l’autore imprime nello sguardo profondo di Louis, è connesso all’atmosfera rarefatta dell’opera e si declina attraverso una vasta gamma di sfumature in chiaroscuro che potrebbero essere colte in maniera più approfondita attraverso visioni successive, rese quasi obbligatorie dalla logica per sottrazione operata dal regista. Il sontuoso cast francese è in grande spolvero con Gaspard Ulliel, Nathalie Baye, Vincent Cassel, Marion Cotillard e Léa Seydoux. La pellicola ha vinto, meritatamente, il Grand Prix Speciale della Giuria al Festival di Cannes ed è stata clamorosamente esclusa dalla cinquina finale in lizza per l’Oscar al miglior film straniero. Elitario e profondo nella sua dialettica appartata, è un gioiello d’essai del cinema d’oltralpe inopinatamente passato in sordina nel nostro paese.

Voto:
voto: 4/5

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