Louis
è un talentuoso scrittore teatrale quarantenne, taciturno, sensibile e di
orientamento omosessuale, che dopo dodici anni di assenza decide di tornare a
far visita alla sua famiglia per annunciare la sua imminente morte, a causa di
una malattia terminale. Una volta riunitosi con i suoi si rende presto conto
che nulla è cambiato e che le dinamiche nevrotiche e le tensioni isteriche che
lo avevano allontanato anni prima sono ancora le stesse. La madre Martine è
petulante e bizzarra, il fratello maggiore Antoine (da sempre invidioso delle
sue qualità) è aggressivo e sgarbato, la sorella minore Suzanne è affettuosa ma
infelice, piena di tormenti interiori, e la cognata Catherine, mite e remissiva,
appare soggiogata dall’arroganza del marito. Finissimo dramma familiare del
canadese Xavier Dolan che, adattando con impietosa lucidità e asciutto rigore
espressivo l’omonima pièce teatrale
di Jean-Luc Lagarce, firma il suo film migliore, in magistrale equilibrio tra
la malinconica elegia del non detto e il disincantato affresco introspettivo.
Intenso e sardonico, nostalgico e amaro, raffinato e pudico, cupo e sfumato, è
un potente apologo reticente sulla difficoltà dei rapporti umani e sulla solitudine
esistenziale che inevitabilmente accompagna gli spiriti “eletti”, destinati a
scontrarsi con la miseria del mondo e con il fastidioso chiasso della
volgarità. Tutto il film è evidentemente accordato sul dolente personaggio di Louis
(alter ego del regista), spinto con struggimento fuori dal nido da un’altezza
d’animo incompatibile con il suo meschino contesto familiare, e poi tornato,
sommesso figliol prodigo, nell’estremo tentativo di condividere la fine del suo
mondo, facendo prevalere il sentimento sulla ragione. Il drammatico (e a suo
modo eroico) silenzio di Louis è la cifra stilistica e il tocco di genio della
pellicola, un silenzio disperatamente opposto all’isteria esagitata dei suoi
familiari, che appaiono eccessivi e sgraziati sia nella manifestazioni d’amore
che nei patetici litigi. La riflessione intimista del regista sull’istituzione
familiare è sobria nei modi quanto spietata nelle conclusioni e si avvale di una
messa in scena teatrale che alterna dialoghi tesi (sistematicamente presentati
in coppia tra il protagonista e ciascuno degli altri personaggi) a suggestive
aperture liriche, che fanno decollare le emozioni attraverso stranianti inserti
musicali o un utilizzo artistico del ralenti
che danno respiro al flusso dei palpiti repressi e, ribaltando la prospettiva
dei primi piani strettissimi, elevano verso la poesia. Il retrogusto acre del
tempo perduto, che l’autore imprime nello sguardo profondo di Louis, è connesso
all’atmosfera rarefatta dell’opera e si declina attraverso una vasta gamma di
sfumature in chiaroscuro che potrebbero essere colte in maniera più
approfondita attraverso visioni successive, rese quasi obbligatorie dalla
logica per sottrazione operata dal regista. Il sontuoso cast francese è in
grande spolvero con Gaspard Ulliel, Nathalie Baye, Vincent Cassel, Marion
Cotillard e Léa Seydoux. La pellicola ha vinto, meritatamente, il Grand Prix
Speciale della Giuria al Festival di Cannes ed è stata clamorosamente esclusa
dalla cinquina finale in lizza per l’Oscar al miglior film straniero. Elitario
e profondo nella sua dialettica appartata, è un gioiello d’essai del cinema d’oltralpe inopinatamente passato in sordina nel
nostro paese.
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