mercoledì 12 aprile 2017

Henry, pioggia di sangue (Henry: Portrait of a Serial Killer, 1986) di John McNaughton

Henry è uno psicopatico disadattato, con pesanti traumi infantili derivanti da una madre laida che lo costringeva a vestirsi da donna e a partecipare ad umilianti festini a luci rosse con i suoi amanti occasionali. Henry è un nomade solitario che vive ai margini della società e trascorre le sue giornate uccidendo persone a caso (principalmente prostitute) con sadica ferocia e metodico rituale, senza alcuna reazione emotiva. Un giorno Henry incontra Otis, degenerato avanzo di galera, che lo accompagna nelle sue violente scorribande dimostrandosi ancora più perverso di lui. Ma tra i due criminali si frappone Becky, sorella di Otis scappata da un matrimonio problematico, che s’invaghisce del silenzioso Henry. Cruento thriller drammatico ispirato alle vere “gesta” dell’inquietante serial killer Henry Lee Lucas, che fu accusato di ben 214 omicidi,  ne confessò circa 600 ma venne infine condannato per 11 vittime accertate. Film cupo, malsano, rude e violento, a tratti insostenibile per l’estrema brutalità di alcune sequenze, è divenuto rapidamente oggetto di culto presso i fans delle pellicole sanguinarie dedicate agli omicidi seriali. Girato a basso costo, ma non senza perizia tecnica, ci offre un’istantanea sgradevole e potente del lato oscuro del sogno americano, di quel mondo sotterraneo di dolore, violenza e disperazione dove vivono sporchi reietti dediti al male, portatori insani di ferite psicologiche profonde che non possono essere rimarginate e latori di tutte le contraddizioni dell’America, “terra delle opportunità”. La portata scioccante di molte scene lo rende un prodotto di nicchia destinato agli “stomaci forti”, ma chi lo ha rapidamente bollato come morboso b-movie, colpevole di “pornografia” della violenza efferata, non ne ha colto la sottile carica oscura e la possanza dello sguardo che deriva dallo stile glaciale, asettico, straniato, impassibile, proprio come il suo terribile protagonista. Alla sua uscita divise la critica (un suo storico ammiratore è Martin Scorsese mentre un suo risaputo detrattore è Nanni Moretti, che lo cita in una celebre sequenza di Caro Diario), sconvolse il pubblico e fu presto relegato alla sordina underground che si addice alle pellicole estreme. Ma il film di McNaughton ha una sua logica, è una delle più lucide e inquietanti retrospettive dedicate alla figura di un serial killer e non va assolutamente confuso con la bieca spazzatura da sala Grindhouse. Il gelo dei modi e la dimensione iperbolica di alcune sequenze (come quella famosa del videotape che ribalta gli stereotipi del porn-gore e sancisce la matrice artistica dell’opera) lo rendono un ritratto puro, disturbante ed emblematico di un malessere agghiacciante che l’ipocrisia dei moralisti sceglie di non vedere. Notevoli i tre protagonisti principali, Michael Rooker, Tom Towles e Tracy Arnold, di cui solo il primo ha avuto una degna carriera di attore. In America il film uscì solo tre anni dopo la sua realizzazione e con il massimo divieto possibile (X-rated), mentre nel Regno Unito fu ampiamente tagliato, censurato e a lungo boicottato. Visivamente è un incubo sporco da cui il pubblico mainstream farebbe bene a stare alla larga. Per gli amanti del genere horror è un cult “maledetto” da recuperare, specialmente per chi non lo conosce. In una parola: sconvolgente.

Voto:
voto: 3,5/5

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