domenica 2 aprile 2017

M. Butterfly (M. Butterfly, 1993) di David Cronenberg

Pechino, 1964: un diplomatico francese, René Gallimard, s’innamora di una cantante lirica, Song Liling, dopo aver assistito alla sua interpretazione nella “Madama Butterfly” di Puccini. Convinto di aver trovato la sua Butterfly, ovvero l’ideale di donna devota e sottomessa a cui da sempre ambisce nel suo intimo, l’uomo, per quanto sposato, riesce ad incontrarla e a sedurla. Ma la relazione si rivela fin da subito difficile e Gallimard troverà ad attenderlo un’amara sorpresa. Ipnotico melodramma al ghiaccio di David Cronenberg, basato sulla pièce teatrale omonima di David Henry Hwang, a sua volta liberamente ispirata ad un fatto di cronaca realmente accaduto. Senza svelare troppi dettagli sulla trama (perché sarebbe delittuoso) possiamo dire che questa pellicola allucinata, pervasa da atmosfere mortifere, tratteggiata con un’estetica da incubo e per molti versi spiazzante, è solo un’apparente anomalia nel percorso artistico del grande regista canadese, rispetto alla sua poetica della carne, del sangue e della mutazione del corpo. Infatti la stessa “Madama Butterfly” di Puccini può essere letta come opera mutante e questo film di Cronenberg ne costituisce una rivisitazione specularmente rovesciata (e, quindi, un’ulteriore mutazione) impregnata da suggestioni psicopatologiche, ossessioni sessuali, feticismo oscuro, erotismo malato e riflessioni inquietanti sul concetto di identità. I risvolti politici pur presenti nel film (l’analisi del post colonialismo occidentale nei confronti dell’oriente) sono risolti con approccio poco attento alla verosimiglianza, perché all’autore canadese interessano maggiormente gli aspetti psicologici della torbida vicenda: il rapporto morboso tra Gallimard e Liling nelle sue ambigue e molteplici sfaccettature che sottendono una disparità di argomenti: il tema del doppio, la sovrapposizione dei ruoli opposti (maschio-femmina, amante-amato, persona-personaggio, oriente-occidente, capitalismo-comunismo) e il trasferimento di personalità. Rinunciando del tutto agli effetti speciali ed al gore di molte sue pellicole, il regista poggia il film sulle spalle del suo tormentato protagonista, interpretato con ammirevole mimetismo da un Jeremy Irons “insolito”, e porta in scena un concetto ben più sottile (e più disturbante) di ibridazione: in quanto realizzata attraverso un’astrazione sessuale psichicamente idealizzata e, quindi, extrasensoriale, ovvero proiettata sulla base del proprio desiderio inconscio. Almeno due i momenti che resteranno di quest’opera ammaliante: la sequenza nel furgone ed il celebre epilogo in carcere. Il film fu un assoluto flop al botteghino, anche perché uscì in contemporanea con altre due pellicole per certi versi similari (ma di cui, per ovvi motivi, non sveliamo i titoli) ed è generalmente considerato, ingiustamente, come un’opera minore dell’autore. Un suo punto debole è sicuramente una cattiva scelta di casting (perché svela anzi tempo ciò che non dovrebbe) ma, nonostante i suoi difetti, rimane un punto fermo nella filmografia di Cronenberg e nella sua analisi psicologica sul sentiero dell’horror venereo.

Voto:
voto: 4/5

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