martedì 1 novembre 2011

Apocalypse Now (Apocalypse Now, 1979) di Francis Ford Coppola

Dopo il secondo Padrino, Coppola si prende una lunga pausa di circa 4 anni per realizzare il suo progetto più ambizioso, il suo film più controverso e più bello: “Apocalypse Now” del 1979. Opera dalla gestazione lunga, complessa e tormentata, tra tifoni tropicali, malattie, litigi e costi di produzione esorbitanti, che portarono l’America Zoetrope sull’orlo della bancarotta. Per rigorose esigenze veristiche Coppola pretese di girare il film in estremo Oriente, precisamente nelle Filippine, e ciò dilatò a dismisura i costi ed i tempi di realizzazione. Alla sua uscita il film non ebbe il successo di pubblico sperato e divise totalmente la critica in due: una parte lo acclamò come capolavoro, soprattutto in Europa (non per niente la pellicola vinse la Palma d’Oro al Festival di Cannes), mentre un’altra parte (specialmente americana) lo massacrò, bandendolo come lento, lungo e fastidiosamente pretenzioso. Con il tempo, però, il film è stato giustamente rivalutato come un cult assoluto ed uno dei massimi capolavori della storia del Cinema. Chiariamo subito che “Apocalypse Now” è un capolavoro straordinario ed epocale, un’opera gigantesca, roboante, potente, psichedelica, visionaria, filosofica e politicamente scorretta: probabilmente davvero troppo per il 1979. Sebbene venga spesso catalogato come un film sulla guerra in Vietnam, tale affermazione, per quanto veritiera, è quanto meno riduttiva e semplicistica, per nulla in linea con la natura complessa e psicoanalitica della pellicola: “Apocalypse Now” è la metafora allegorica di un viaggio spirituale nelle zone più oscure ed ancestrali dell’animo umano. Coppola, dimostrandosi un genio allo stato puro, ribalta completamente la concezione di war movie del tempo, deludendo quindi chi si aspettava di vedere eroi saldi nei loro principi, pronti a dare la vita per la patria e l’onore. In questo film gli uomini sono semplici uomini, terrorizzati e sconvolti, codardi o coraggiosi a seconda delle circostanze, a volte assassini spietati ed amorali, e il confine tra bene e male sembra assottigliarsi e confondersi di continuo. Il film ci dice a chiare lettere che la guerra è solo orrore e coloro che la fanno cadono inevitabilmente nella follia, senza possibilità di fuga. E, sottilmente, Coppola non ci mostra nemmeno un vietcong, quasi a volere significare che il vero nemico è in realtà dentro di noi. Ispirato al racconto “Cuore di tenebra” di Joseph Conrad, il film è ambientato nel terzo anno della guerra in Vietnam: il capitano Willard (un eccellente e spiritato Martin Sheen), soldato sconvolto e confuso, viene scelto per una missione segreta e pericolosa: trovare ed uccidere il fantomatico colonnello Kurtz (un monumentale Marlon Brando), un eroe di guerra improvvisamente impazzito che si è rifugiato in un remoto angolo della giungla cambogiana, dove combatte una propria guerra personale, commettendo ogni sorta di atrocità. Il viaggio di Wilard, attraverso il Vietnam e la guerra, avviene risalendo un fiume (metafora di un percorso spirituale all’interno della propria coscienza) che lo condurrà, dopo tanti pericoli, al fatidico incontro con Kurtz e con i demoni della propria mente. Il viaggio di Wilard, risalendo il fiume Lung, è, come già detto, un’allegoria sulla ricerca del significato della morale e dei principi con cui essa regola la vita dell’uomo. La risposta che Coppola sembra darci è che ogni etica si fonda in realtà su convenzioni di falsità, e andrebbe quindi abbandonata per abbracciare una concezione mitica e primordiale dell’esistenza (un po’ quello che Freud definiva come processo primario, cioè non influenzato da processi intellettuali vincolanti). Questa è la strada scelta da Kurtz, ma è una strada senza uscita, perché senza le menzogne della morale si perviene sì ad una nuova primitiva purezza ed “onestà” ma, di contro, in assenza totale di etica e di cultura, si varca presto il confine del disumano, e si trova solamente “l’orrore”. Non a caso Kurtz esprime esattamente questi concetti nel suo ultimo magnetico discorso ad uno spaesato Wilard. La conclusione del film è dunque spiazzante e contraddittoria, è un paradosso irrisolvibile e, in definitiva, una non-conclusione: l’etica è un paradigma di menzogne inventate dall’uomo per giustificare le proprie terribili azioni (come l’omicidio o la guerra), ma, al tempo stesso, un uomo privo di etica non è più un uomo, ma un essere selvaggio e primitivo che cade nell’orrore. In questa visione amara e anti-utopica dell’uomo esplode il dramma di Kurtz, che ha smarrito la strada inseguendo la purezza, che ha negato il mondo senza però proporre nuove direzioni, che ha svelato l’enorme inganno che regola il destino umano ed ha capito che da esso non esiste uscita, se non la morte. E Coppola ci conduce, attraverso il fiume, in questo labirinto dell’animo umano, dove bene e male sembrano confondersi tra di loro. I punti cardine del film sono la falsa morale, che ha lo scopo di giustificare la guerra, rappresentata dagli alti ufficiali di Natrang, mandanti della missione; poi, ovviamente, Kurtz che sta all’altro polo e rappresenta la negazione della falsa morale. Questi due poli sono distanti, anche geograficamente: il primo nelle città ed il secondo nella giungla, metafora di un mondo primitivo che ubbidisce solo alle regole biologiche primarie. Su questa distanza si innesta la metafora del fiume e del viaggio, inteso come vita da vivere, che viene compiuto da Wilard; egli è il terzo punto cardine della vicenda, e rappresenta, probabilmente, la cultura umana nel suo procedere verso la conoscenza e la scoperta della natura dell’etica. Coppola è bravissimo nel presentarci Wilard come un personaggio ambiguo e senza apparenti qualità, a volte umano a volte spregevole, addirittura folle ed allucinato nella sequenza iniziale. E’ infatti fondamentale, per il suo ruolo di fulcro dinamico dell’impianto allegorico, che lo spettatore non empatizzi mai totalmente con lui. Il viaggio di Wilard è un viaggio quasi dantesco, suddiviso in varie stazioni (ciascuna con un proprio significato intrinseco) ed è il percorso errante della cultura umana che procede attraverso livelli diversi di conoscenza, liberandosi sempre più dalle scorie morali ed intellettuali, fino alla giungla, un non-luogo primigenio e mitologico, dove l’essere umano appare finalmente nella sua vera natura oscura, selvaggia e terrificante. La prima stazione è Natrang, dove gli alti gradi militari ubbidiscono alle leggi dell’etica e non hanno dubbi nell’illustrare a Wilard che cosa è giusto fare: “porre fine al comando del colonnello”. La stazione successiva è quella dove Wilard incontra il colonnello Kilgore (un carismatico ed ispirato Robert Duvall), personaggio grottesco ed inquietante, che combatte una sorta di guerra privata buttando napalm su villaggi contadini con la sua “cavalleria dell’aria”, al ritmo della “Cavalcata delle Valchirie” di Wagner, solamente al fine di procurarsi uno spazio utile per praticare il surf nei fiumi del Vietnam. Kilgore è sicuramente uno dei personaggi indimenticabili della pellicola, e la sua lucida follia (“mi piace l’odore del napalm al mattino”) contiene il significato di questa seconda stazione: il relativismo dell’etica, ovvero la morale che cambia e si adatta alle situazioni contingenti ed alle singole necessità, sebbene irrazionali (in questo caso il surf). Da questo relativismo si comincia già ad intuire la natura falsa della morale, secondo la visione di Coppola ovviamente. La terza tappa è la spettacolare base militare edificata su una piattaforma nel fiume, dove assistiamo allo spettacolo erotico delle playmates, giunte fino a qui per risollevare ed allietare l’animo dei soldati. Il suo significato sono gli istinti, le pulsioni non razionali insite nell’uomo, pulsioni sessuali ma anche di violenza e di morte: infatti lo spettacolo viene interrotto per l’atteggiamento minaccioso della folla e le conigliette sono costrette alla fuga per evitare il peggio. La cultura si sta gradatamente allontanando dalla morale e dalla razionalità. Da questo punto in poi si varca il confine della terra oscura, il punto di non ritorno e dopo il casuale incontro con la tigre (un richiamo a Dante ?), si arriva alla stazione del samprà di pescatori, dove una perquisizione ordinaria si trasformerà in una crudele strage di innocenti. Un ulteriore allontanamento dalla morale ed un ulteriore e irreversibile passo avanti negli istinti più ferini e brutali della natura umana. Straordinariamente esplicativa, in tal senso, la terribile scena di Wilard che spara senza alcuna emozione alla ragazza ferita, per spazzar via (anche da se stesso) ogni possibile tentazione di tornare indietro. La penultima tappa, prima dell’Inferno, è il ponte di Do Lang, dove Coppola ci presenta l’anarchia assoluta, soldati sbandati e senza comando, confusi e terrorizzati, automi che uccidono, piangono ed imprecano senza più chiedersi il perché. Ormai la morale è totalmente sparita, l’unica guida è l’istinto di sopravvivenza, il più antico ed ancestrale. Dopo il ponte c’è la Cambogia, o meglio, come dice Wilard, “c’è solo Kurtz”. L’ultima stazione è la giungla, il regno di Kurtz, un luogo del pensiero, un luogo del mito, un regno pagano, dove esiste solo l’istinto più puro e primordiale, la morte, la violenza, l’orrore. Qui Kurtz è Dio, è Padre, è Re, adorato e venerato da indigeni, rinnegati e disertori, accorsi in questo Inferno in terra come per rispondere ad una chiamata. Visivamente straordinaria la scena dell’arrivo “alla fine del fiume”, un immenso momento da storia del cinema. Kurtz è il simbolo dell’uomo che si è definitivamente liberato da ogni falsità morale ed ha raggiunto uno stato di “purezza” animale, selvaggia e spaventosa: le sue azioni, per quanto possano essere orribili, non sono immorali, perché superiori al giudizio ed alle fasulle leggi dell’etica. Egli è ritornato alle origini, alle radici, all’alba dell’uomo e questo regno dell’irrazionale, da lui creato nel cuore della giungla, vive e respira all’unisono con lui, quasi in uno stato di eterna sospensione. Kurtz è veramente la fine del viaggio, l’ultimo stadio della conoscenza, qui la cultura e la morale trovano la loro negazione, l’orrore allo stato puro, la fine (cosa sottolineata anche dalla canzone dei Doors, “The End”, scelta dal regista come commento musicale). Eccellente la scelta di Coppola di costruire tutto il film su Kurtz-Brando (il vero protagonista della vicenda) senza però mostrarlo mai, tranne che nei minuti finali, in un inquietante ed ammaliante gioco di luci ed ombre. Eppure, per tutta la pellicola, lo evoca, ce ne fa sentire la presenza terribile e angosciosa, ne avvertiamo l’autorità ed il magnetismo, come Wilard siamo attratti e spaventati dall’idea di lui, a mano a mano che si risale il fiume. Con un espediente narrativo tipico delle tragedie alfieriane, il regista porta ai massimi livelli l’attesa e le aspettative verso questa figura, rendendo così ancora più titanica la sua entrata in scena. La presenza scenica di Brando, ed il suo naturale carisma fanno il resto. Le poche scene del film in cui compare Kurtz-Brando sono entrate giustamente di diritto nella storia del cinema. Ma la cultura non può accettare la negazione di sé, per questo Kurtz deve morire, deve essere ucciso, in un barbaro rituale di purificazione (si noti il parallelo tra la fine di Kurtz e quello del toro), perché la cultura possa mondarsi e ricominciare da capo. Così Wilard uccide Kurtz, in un atto sanguinoso e quasi edipico, ed il mondo da lui creato finisce, ma quello che ha vinto è davvero il Bene? Con Wilard sopravvive solo Lance, che ha saputo adattarsi alle varie situazioni del viaggio, si è persino temporaneamente calato nel mondo istintuale di Kurtz (si ricordi la sua totale partecipazione al rito tribale dell’uccisione del toro). Lance è uno spirito aperto e permeabile, non ha paura di abbandonarsi a nuove percezioni della conoscenza o ad esperienze stranianti, usa pesanti dosi di LSD per amplificare i suoi ricettori non razionali. Forse, Coppola vuol dirci che è proprio lui la speranza per il futuro, perché il viaggio possa riprendere. Ma il film si chiude ancora con un’eco lontana delle parole di Kurtz (“l’orrore, l’orrore”) perché chi ha visto l’Inferno non potrà più dimenticarlo. “Apocalypse Now” è considerato l’ultimo film della così detta “New Hollywood”, di cui Coppola è stato il padre fondatore, e chiude nel migliore dei modi un periodo artisticamente altissimo ed irripetibile per il grande regista. Da qui in poi inizierà, inevitabile, la discesa. Nel 2001 ne è uscita una versione "Redux" che reintegra circa 40 minuti di scene tagliate dal montaggio originale ma il risultato è un film meno compatto ed inutilmente appesantito rispetto al cuore della storia basato sul triangolo Wilard-fiume-Kurtz. La versione cinematografica originale resta insuperata ed insuperabile.

La frase:Ho visto degli orrori, orrori che ha visto anche lei. Ma non avete il diritto di chiamarmi assassino. Avete il diritto di uccidermi, questo sì, ma non avete il diritto di giudicarmi. Non esistono parole per descrivere lo stretto necessario a coloro che non sanno cosa significhi l'orrore. L'orrore ha un volto e bisogna essere amici dell'orrore. L'orrore ed il terrore morale ci sono amici. In caso contrario allora diventano nemici da temere. Sono i veri nemici
 
Voto:
voto: 5+/5

Nessun commento:

Posta un commento