Kim Ki-duk è un regista raffinato, elegante e ricercato, i suoi film vengono spesso paragonati a dei quadri in movimento. Fa un cinema di immagini, solitamente evocative e poetiche, spesso unite a dei contenuti "forti" che scavano nel profondo della natura umana e delle sue pulsioni primigenee. Lo stile è eccelso, anche se il ritmo è, solitamente, abbastanza lento; ma questo non è certo un problema per chi apprezza (e conosce) il cinema del sol levante. I film di Kim Ki-duk, sotto un'apparenza spesso semplice e minimale, celano sempre profonde metafore esistenziali, accompagnate da una messa in scena solitamente algida, che a volte sfociano nel filosofico e nel metafisico, e non prive di qualche tocco manieristico. Pellicole come "L'isola", "Bad Guy", "The coast guard", "Ferro 3: la casa vuota" e quella qui recensita (che è tra i suoi capolavori), sono tutte di grande livello artistico e meritano l'assoluta attenzione del pubblico. Anche se trattasi di opere non proprio facili, anzi di un certo impegno, che magari potrebbero annoiare i mainstreamers. Ma la visione ripaga ampiamente l'impegno di cui sopra, come spesso accade col Cinema d'Autore.
"Primavera, estate, autunno, inverno... e ancora primavera" è una delle opere più memorabili del regista, in cui tutte le sue tematiche ed i suoi stilemi raggiungono il massimo compimento e risalto figurativo, in un meraviglioso apologo/idillio sul tempo nel quale la meraviglia formale si associa (in una distonia tipica del regista sud coreano) alla durezza dei contenuti. E' una complessa riflessione sul tempo, il cui scorrere (lento ma inesorabile) è scandito dalle stagioni che qui rappresentano le tappe della vita tra incanto della natura, silenzi fortemente espressivi, felicità, dolore, tragedia, peccato, redenzione. Visivamente splendido, unisce alla bellezza della forma un alto valore metaforico che gli garantisce lo status di grande Cinema.
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