martedì 1 novembre 2011

Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (1970) di Elio Petri

Il capo della Squadra Omicidi di Roma, funzionario efficiente, autorevole ed egocentrico, viene promosso come direttore dell’Ufficio Politico. Ma, proprio il giorno della sua promozione, l’uomo uccide la sua amante, Augusta Terzi, con cui intrattiene un rapporto sadico e morboso, evidente segno di una personalità ambigua e disturbata, ben celata dietro una facciata rigorosa ed impeccabile. Cosciente della propria posizione di potere, egli fa di tutto per diffondere in giro indizi della sua colpevolezza, in un equivoco e paradossale cimento della sua posizione di intoccabile. Nel 1970 il regista romano Elio Petri dirige questo capolavoro che costituisce la prima, fortunatissima pellicola della sua così detta “trilogia del potere”. Un film memorabile e bellissimo, che si pone nettamente al di sopra dei “generi” per il suo enorme valore, e che fu capace di cogliere perfettamente gli umori e le inquietudini della sua epoca, addirittura anticipando il quadro politico italiano degli anni ‘70. Nonostante le grandi polemiche che ne accompagnarono l’uscita (per i fortissimi ed irriverenti contenuti di denuncia socio-politica), la pellicola ottenne un grandissimo e meritato successo di pubblico e critica, e vinse molti premi tra cui il Premio Speciale della Giuria a Cannes nel 1970 e l’ambito Oscar come miglior film straniero del 1971. Tantissime le cose egregie di quest’opera di Petri: una sceneggiatura solida ed avvincente, che mischia sapientemente insieme i toni del poliziesco, quelli del thriller e quelli del cinema d’autore, e che ci appare fin dall’inizio come “qualcosa” di superiore, per le atmosfere surreali o le situazioni grottesche, e per gli elementi di denuncia lucidi e scioccanti che colpiscono lo spettatore come un macigno. La regia è elegante ed accurata e mantiene costantemente vivo il patos e l’attenzione, con continui cambiamenti della forma: dai toni sfumati e morbosi della relazione amorosa tra il funzionario e la bella Augusta, a quelli cupi e spartani delle stanze segrete del Potere, a quelli magnetici e nevrotici del “dottore” e della sua gestualità smodata e presuntuosa. L’insolita scelta del regista di mostrarci fin dall’inizio il delitto e l’omicida sovverte del tutto i canoni tipici del giallo o del thriller, ma la tensione resta comunque alta a causa dell’insolito comportamento del protagonista, al limite tra psicanalisi e delirio di onnipotenza, che fa di tutto per lasciare tracce della propria colpevolezza. Splendida e giustamente famosa la colonna sonora di Ennio Morricone. Addirittura straordinaria l’interpretazione di Gian Maria Volontè nei panni del fantomatico e magnetico “dottore”, con i suoi continui cambiamenti di umore, l’espressione sempre affettata, gli atteggiamenti ora pomposi ed autoritari, ora nevrotici ed infantili e quella indimenticabile parlata urlata e cadenzata, in un insigne vernacolo, che sa di imprecisato retaggio meridionale. Il “dottore” (così viene sempre chiamato nel film) è un personaggio senza nome e sempre sopra le righe, nei gesti e nelle parole, è il simbolo del Potere, delle sue psicosi, dei suoi meccanismi, dei suoi vizi e dei suoi vezzi, che Petri ci mostra quasi chirurgicamente con dovizia di particolari, spesso al limite del caricaturale e del grottesco. La figura del “dottore” è il cuore e l’anima del film ed il regista gli concede la scena a tutto tondo per mostrarcelo in tutte le sue ambiguità e sfaccettature, dagli sguardi ai gesti, dai ghigni alla camminata tronfia, fino ai primi piani inquisitori. Pregevole la tecnica di ripresa utilizzata da Petri, che inquadra spesso la faccia del Potere (il “dottore”) dal basso, così da esaltarne e “magnificarne” le espressioni, mentre fa l’esatto contrario con i poveri volti delle sue “vittime” di turno, costrette a subire bruschi rimbrotti, umilianti paternali o truci maltrattamenti (impossibile non citare, al riguardo, la scena del confronto-scontro tra il titanico “dottore” e l’umile “stagnaro” mandato in questura a portare le cravatte azzurre). Ma il regista è altresì bravissimo a mostrarci tutti gli strumenti di cui il Potere si serve: le camere sotterranee per gli interrogatori, le intercettazioni telefoniche, le celle di sicurezza, i duri metodi di repressione, i discorsi esagitati e propagandistici al limite del delirio (su tutti quello tenuto dal “dottore” per il suo insediamento come capo dell’Ufficio Politico). Ma nonostante tanta ostentazione di forza, sicurezza e magnificenza, anche la facciata marmorea del Potere ha le sue crepe, ovvero la sordida relazione che il “dottore” intrattiene con la bellissima e lasciva Augusta Terzi (Florinda Bolkan), donna con tendenze sadomasochiste, che ama farsi fotografare come le vittime di terribili fatti di cronaca nera e che più volte istiga l’ego del suo amante a commettere crimini, dei quali resterà sicuramente impunito a causa della sua posizione di egemonia all’interno del sistema. Il morboso rapporto tra i due, che ci viene sempre mostrato attraverso un intelligente uso dei flashback, inizialmente stimola ed alimenta il narcisismo del “dottore”, che quasi utilizza Augusta per specchiarsi e crogiolarsi della propria onnipotenza, perché il Potere è vorace ed insaziabile e, anche quando ha divorato tutto, riesce a nutrirsi pure di se stesso. Ma ben presto il sadismo della donna la trasformerà da vittima consenziente a carnefice, e Augusta si prenderà gioco del “dottore” in tutti quei modi in cui una donna sa ferire profondamente un uomo: offese, palesi tradimenti, allusioni di incapacità sessuale, fino alla più becera derisione. Questo “gioco al massacro” innesca un turbine di nevrosi nella mente del funzionario, perché il Potere non può tollerare, neanche per un attimo, la perdita del controllo, né può avere dubbi sulla propria capacità di mantenerlo, e per questo l’uomo decide di uccidere Augusta. Ma qui avviene la cosa più interessante e torbida dell’intera vicenda (che è poi ciò che rende questo film indimenticabile): la personalità nevrotica ed iper-attiva del “dottore” sembra dividersi in due parti contrastanti, una che cerca strenuamente di continuare ad affermare il dogma di non incriminabilità ed intoccabilità del Potere, e l’altra che, invece, tenta in modo masochistico di allargare quella crepa sulla facciata marmorea, fino a renderla una voragine, facendo di tutto per far scoprire il proprio crimine. In questo psicopatico scisma del Potere, che si muove in modo altalenante in due opposte direzioni con continui cambi di prospettiva, spiazzando ripetutamente lo spettatore, risiede il fascino maggiore di quest’opera di Petri, ma anche l’evidenza della debolezza insita nel Potere stesso. Assolutamente straordinario, nella sua fosca ambiguità, anche il finale della pellicola, con il sogno del “dottore” che sembra avere una rivelazione del suo possibile futuro: un Potere più alto accorre in suo aiuto per distruggere ogni prova da lui stesso disseminata e per richiudere prontamente la crepa che il suo alter-ego stava cercando di aprire. Perché il Potere non può ammettere di essere fallibile e deve distruggere ogni possibile indizio che possa indurre a crederlo, perché il Potere si basta, si autoribadisce e si rigenera dalle proprie debolezze. Questo inquietante ed oscuro meccanismo, ci ricorda un po’ la tecnica del bispensiero descritta da Orwell nel suo “1984”, come principio alla base di ogni sistema totalitario, secondo cui si riesce mentalmente a sostenere un’idea ed il suo opposto, con un atto quasi automatico ed involontario, in modo da non uscire mai dai confini della dottrina teorizzata. Gli unici oppositori al Potere che Petri ci mostra sono la dannunziana figura di Augusta e lo spavaldo e sanguigno anarchico Pace, l’unico nella massa amorfa di giovani manifestanti che regge all’urto del “dottore” e lo mette addirittura in crisi, rivelandogli di essere a conoscenza del delitto da lui commesso. Il finale, come detto, è volutamente ambiguo perché, alla fine del sogno, il “dottore” si risveglia e vede realmente arrivare i suoi superiori e colleghi nella sua abitazione. Ma Petri non ci mostra cosa avviene, interrompendo il film proprio all’inizio del dialogo tra il funzionario ed i suoi “giudici” improvvisati, sebbene i toni oscuri e crepuscolari ce lo lascino presagire. Un film deflagrante nei contenuti, un agghiacciante apologo sui sistemi del Potere, che, posto temporalmente al crocevia tra i moti liberali del 68 e l’inizio degli “anni di piombo”, scioccò notevolmente gli spettatori per la sua analisi così lucida e rigorosa. Ovviamente suscitò un vespaio di polemiche negli ambienti più reazionari e nelle classi dirigenti. Un altro aspetto decisamente encomiabile di questa pellicola è il perfetto compromesso raggiunto tra uno stile autoriale ed uno più “semplice”, in modo da renderla interessante e godibile per qualunque tipo di pubblico. E questa sorta di “alleggerimento” dei toni avviene tramite l’uso del grottesco e del caricaturale, e specialmente per merito della incredibile performance di Volontè. Insomma un vero capolavoro del cinema italiano, assolutamente da non perdere e consigliato a tutti! Una ennesima dimostrazione di quando il nostro cinema sapeva fare scuola.

Voto:
voto: 5/5

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