Un lussuoso albergo della Mitteleuropa. Una donna accompagnata da un sinistro marito. Un uomo misterioso che cerca di indurla a fuggire via con lui, memore di una promessa fattagli l'anno precedente a Marienbad. Ma lei, seppur turbata, sembra non ricordarsi di lui e di questo precedente incontro. O, magari, finge. Chi dei due avrà ragione ? Film stupefacente, spiazzante, ellittico, astratto, privo di punti di riferimento, ma di incredibile fascino visivo e dalle indimenticabili atmosfere oniriche e stranianti. E' un viaggio visionario attraverso tempo, spazio e memoria, con un continuo inestricabile groviglio labirintico di questi tre elementi, che si mescolano, confondendosi e perdendosi, mutuamente, come gli enormi corridoi vuoti dell'Hotel che sfociano in ampi saloni da cui si dipartono nuovi corridoi, in un infinito gioco di rimandi e di ricorsioni. Due anni dopo il bellissimo "Hiroshima Mon Amour" (1959), Resnais riprende la sua meditazione sui temi del tempo, del sogno, della memoria e dell'impossibilità di discernerli in modo razionale, e porta alla massima esasperazione la sua poetica anti-narrativa destrutturando non solo l'impianto del racconto, ma la stessa sintassi cinematografica utilizzando nuove forme espressive, insomma meta-cinema. Lo spettatore si trova immerso (e perso) in ambienti statici, atmosfere immobili, personaggi (evidentemente simbolici, già dai nomi: A, X, M) sospesi in una sorta di limbo atemporale e le poche conversazioni sono sempre enigmatiche e poco comprensibili. La sensazione è quella di uno stream of consciousness alla Joyce per navigare, senza precise coordinate, nella memoria, nel sogno e nel tempo attraverso continui sbalzi del piano "narrativo". Nulla è chiaro, ma tutto è sospeso, evocato, sussurrato, intuito e poi nuovamente negato, come in un gioco di specchi opposti puntati sull'animo dei misteriosi protagonisti. Impossibile avere una fruizione logica e tradizionale di un film di questo tipo, bisogna, invece, abbandonarsi al flusso e lasciarsi trasportare (e incantare) dalla sua conturbante magia. Dal punto di vista tecnico ci troviamo di fronte ad un capolavoro: regia e fotografia straordinarie, immagini ambigue ed eleganti, movimenti di macchina lenti e sinuosi alternati a piani sequenza statici, luci tenuemente ovattate e musiche (d'organo) suadenti e misteriose. E il tutto concorre ad immergere, letteralmente, lo spettatore in questo limbo di onirica sospensione, un altrove indefinito al di là del tempo e dello spazio in cui ci si muove secondo gli oscuri percorsi della memoria.Ci sono anche rimandi e citazioni, più o meno nascoste, al grande cinema d'Autore europeo: principalmente Bergman ed Antonioni. La critica ne fu entusiasta per fascinazione, estetica e portata innovativa e lo premiò con il Leone d'Oro al Festival di Venezia del 1961. Il pubblico, invece, gradì di meno per l'ostico ermetismo e l'estrema lentezza della pellicola. Ciò che invece divenne "famoso", e di tendenza, fu il gioco dei fiammiferi, che compare nel film ed ha, ovviamente, un valore metaforico. L'impressione che tutto si possa ricondurre ad un mero esercizio di alto manierismo stilistico è, ovviamente, forte ma il film resta uno dei più affascinanti ed ipnotici esempi di cinema d'avanguardia. Col tempo il suo status di cult è aumentato, sebbene sia principalmente apprezzato da un pubblico cinefilo colto ed amante di un "cinema-altro". D'altra parte è impossibile avere mezze misure con un'opera del genere: o si prende o si lascia. Io prendo.
Voto:
Nessun commento:
Posta un commento