Tra i tanti capolavori del Maestro svedese è, probabilmente, quello più
ostico a causa della sua natura altamente sperimentale nella confezione
estetica che, unita all'astrazione simbolica ed alla matrice
psico-analitica, ne fanno uno dei massimi vertici del cinema
d'avanguardia. Opera molto sentita da Bergman, che per concepirla si
ritrasse in un lungo isolamento meditativo, Persona è un intenso
dramma psicologico centrato su due soli personaggi, ancora due donne,
una delle quali non parla mai. E' una famosa attrice (Liv Ulmann),
bloccata in un silenzio inspiegabile ed assistita da un'infermiera (Bibi
Andersson), che finirà soggiogata dalla personalità dell'altra. E' un
film di alta maestria registica, una riflessione su temi complessi (già
affrontati in forma meno ermetica ne Il volto) come quello
dell'identità dell'attore, dell'antinomia tra persona e personaggio, del
"mistero" del transfert artistico e della sua influenza sul pubblico.
E' anche uno dei film più difficili di Bergman, che non offre
spiegazioni ma si esibisce in una sorta di virtuosistica esercitazione,
di grande rigore formale e ricca di stimoli (ci sono perfino richiami,
assolutamente insoliti per il regista, alla cronaca e alla politica,
oltre che soluzioni stilistiche di tipo sperimentale, come la pellicola
che si blocca e sembra prendere fuoco). L'esplorazione bergmaniana della
psiche femminile raggiunge qui il suo punto più alto, enigmatico,
oscuro e, a suo modo, definitivo. Il film è chiaramente collegabile, per
tematiche ed estetica, ad altri due capolavori degli anni '60: 8½ di Fellini e L'avventura
di Antonioni, per quanto la pellicola di Bergman risulti ben più
glaciale ed "asettica" nella sua rigorosa messa in scena. Da menzionare
(come in tutti i film dell'autore) l'elevata densità tematica, le
interpretazioni di altissimo livello e la qualità straordinaria della
fotografia del fido Sven Nykvist.
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