venerdì 6 maggio 2016

La paura mangia l'anima (Angst essen Seele auf, 1973) di Rainer Werner Fassbinder

Emmi, anziana donna delle pulizie, vedova e sessantenne, sposa Alì, immigrato marocchino più giovane di vent’anni. La relazione suscita lo scandalo generale e tutti si rivoltano contro la donna, figli, amici e colleghi. Questo intenso melodramma di Fassbinder, da alcuni considerato una sorta di “remake” di Secondo amore (1955) di Douglas Sirk (il suo regista preferito), è una riuscita commistione di critica sociale e romanzo sentimentale, sospeso tra masochismo, tenerezza e crudeltà. I temi affrontati sono molteplici: l’amore nella terza età, il razzismo, il pregiudizio, il relativo concetto di normalità, i rapporti di classe e il diritto alla felicità che ogni essere umano dovrebbe avere garantito. Tuttavia, come spesso accade in Fassbinder, le tematiche non vengono sviscerate in modo paradigmatico o dimostrativo, ma sono incastonate nelle immagini, ne sono parte integrante, in una stretta connessione tra concetto e visione. Il feticismo visivo dell’autore si esplicita attraverso il simbolismo pregnante degli oggetti (stipiti, porte, finestre) che incorniciano l’azione e rimarcano il dualismo spettatore/personaggio attraverso l’antitesi voyeurismo/vittimismo. Senza mai essere conciliante il regista utilizza l’artificio delle strutture scenografiche per porre in risalto le emotività narrative, quasi sempre giocate sul filo dell’implosione, salvo poi venire puntualmente ribaltate nello spiazzante epilogo, attraverso la perfida legge del contrappasso. La scena madre del film è quella in cui Emmi, temporaneamente abbandonata da Alì, si abbandona a un’accorata dichiarazione d’amore per il giovane marocchino nella sudicia autorimessa, in presenza dei suoi colleghi tedeschi. In questa sequenza, apparentemente melodrammatica, Fassbinder sottolinea la duplice emarginazione di entrambi i personaggi utilizzando come elemento di contrasto uno sfondo lercio che vieta ogni possibile pensiero di intimità. Il contesto diventa quindi il contrappunto schematico di uno stato interiore, la negazione del comodo approccio didascalico in favore di un più fertile sfalsamento simbolico che nega la possibilità di una conclusione certa. La critica ufficiale è solita considerare La paura mangia l'anima uno dei film più semplici del regista, un’opera minore non all’altezza dei suoi capolavori. Invece contiene tutti gli elementi tipici del suo cinema, è forte di un’intensità spiazzante, di una sincerità disarmante e di una tensione empatica finemente depurata e mai ricattatoria. E’ un’opera potente che sancisce il totale abbandono dell’autore al culto dell’immagine, alla sua forma sfuggente e al suo potere allegorico. Il film fu premiato al Festival di Cannes con il Premio Speciale della Giuria.

Voto:
voto: 4/5

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