Veronika Voss è una ex diva dell’UFA (il
cinema di propaganda nazista) che vive, ormai dimenticata da tutti, nel ricordo
ossessivo del suo passato di celebrità. Dopo l’incontro con il giornalista Robert
Krohn, con cui inizia una storia d’amore, la sua vita sembra migliorare, ma
l’uomo si rende presto conto che dietro gli improvvisi mutamenti d’umore di Veronika
si nasconde un terribile segreto. Verrà così a scoprire che la donna è
prigioniera della sadica dottoressa Katz, una crudele neurologa che la tiene in
schiavitù sfruttando la sua dipendenza dalle droghe e che intende appropriarsi
del suo ingente patrimonio. Malinconico dramma neoespressionista, girato con una
stupefacente fotografia spettrale in bianco e nero che rimarca il senso nostalgico
e tragico della vicenda, ispirato al vero caso dell’attrice Sybille Schmitz, morta
suicida nel 1955. Tra echi di Viale
del Tramonto, fantasmi del passato, suggestioni del cinema muto e
atmosfere noir, questo ennesimo straordinario melodramma masochistico sui
rapporti di potere è la degna chiosa della tetralogia del regista sulla
Germania postbellica attraverso quattro emblematiche vicende di donne. L’ambiguo
gioco tra realtà e finzione, vita e arte, sottolinea il paradossale rapporto di
Fassbinder con il mezzo cinematografico. Un rapporto fatto di amore e di
critica nei confronti di uno strumento così potente, che ambisce ad essere
fabbrica dei sogni ma che è diventato sempre di più una riproduzione del mondo
reale in chiave ridotta e distorta. Immerso in un’atmosfera di tetro
misticismo, il film evoca le atroci immagini della sopraffazione nazista dei
lager, ma l’autore stabilisce chiaramente un’immediata separazione rispetto al
mondo di morbosità che rappresenta, utilizzando la tecnica dello straniamento e
del distacco critico, impedendo così al pubblico di cadere nella fascinazione o
nel disgusto. Le crudeli stanze della dottoressa Katz, agghiacciante allegoria
di un male assoluto che non può essere mai sconfitto in maniera definitiva,
aprono inquietanti visioni sul lato oscuro del popolo germanico, come una sorta
di Auschwitz nascosta tra le pieghe del consumismo. Memorabile e inquietante il
tragico finale, soprattutto grazie al sottofondo sonoro che lo accompagna (la
benedizione “urbi et orbi” del papa
mescolata a note jazz), quasi macabramente profetico rispetto all’imminente
morte prematura del regista. E anche per questo molti hanno trovato un ulteriore
motivo per stabilire una forte connessione di affinità artistica, di percorso
umano e di destino esistenziale, tra Fassbinder e Pasolini. Il film fu premiato
con l’Orso d’oro al Festival di Berlino 1982.
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