giovedì 19 maggio 2016

Un chien andalou - Un cane andaluso (Un chien andalou, 1929) di Luis Buñuel

Un uomo intento ad affilare un rasoio per radersi. Il disco della luna che viene attraversato da una lunga nuvola sottile. L’uomo taglia l’occhio di una donna con il rasoio affilato prima. Due amanti in preda al furore erotico si cercano disperatamente per dar sfogo alla passione; lui ha una mano piena di formiche e il volto grondante sangue. Per raggiungere la sua donna deve trascinarsi dietro un pianoforte a coda, due asini e due preti. Questo e altro ancora nel primo film di Luis Buñuel, che ne è stato produttore (grazie al denaro della madre), sceneggiatore (insieme al pittore Salvador Dalí) e regista. Questo formidabile corto di 16 minuti è il manifesto del surrealismo cinematografico e il più famoso film d’avanguardia della storia del cinema. Privo di logica, privo di trama, ermetico e straniante, inintelligibile e disturbante, anti-narrativo e dissonante, è un visionario poema in immagini di grande potenza figurativa, una rivoluzionaria opera di rottura densa di malia funerea, di allusioni sottili, di elementi incongrui, di insinuazioni psicologiche. E’ un viaggio allucinato e allucinante nell’incubo, nel sogno, nel desiderio e nell’inconscio; da vivere come esperienza totalizzante, mettendo da parte la ragione. Il regista stesso lo definì, non senza umori polemici, un “disperato e appassionato appello al crimine”. Per “comprenderlo” è necessario conoscere il milieu culturale in cui venne realizzato, ovvero l’ambiente parigino del surrealismo di cui condivide in pieno l’estetica irrazionale, l’influsso della psicanalisi freudiana, l’intento rivoluzionario di matrice marxista, lo scardinamento delle convenzioni artistiche e la volontà di impressionare lo spettatore, inducendo un impatto moralmente forte, attraverso l’uso di immagini ripugnanti, assurde, aggressive, offensive. La così detta estetica del brutto per suggerire il meraviglioso che è intrinseco all’incomprensibilità dell’esistenza umana. L’autore arricchì il film con ispirazioni visive prese dalla pittura (Renè Magritte) e dal cinema (Buster Keaton), innervando ulteriormente l’opera con corrosivi spunti polemici anticlericali, antiborghesi e, secondo alcuni, anche contro il poeta Federico García Lorca (spesso accusato da Buñuel di estetismo autoreferenziale). Il titolo del film proviene da “Un perro andaluz”, una raccolta di poesie e prose scritte da Buñuel e pubblicata nel 1927 sulla “Gaceta Literaria” di Madrid. Nel 1960 all’opera (inizialmente muta) furono aggiunte delle musiche (la “Morte di Isotta” di Wagner e alcuni tanghi argentini) scelte dallo stesso autore. L’attore protagonista principale, il francese Pierre Batcheff, si tolse la vita poco dopo aver terminato le riprese, aumentando così l’aura “maledetta” della pellicola. Buñuel e Dalí fanno due brevi apparizioni: il primo è l’uomo che all’inizio affila il rasoio, il secondo è uno dei due preti legati e trascinati dal protagonista. La sequenza dell’occhio tagliato è una delle scene shock più famose della storia del cinema; per ottenere l’incredibile effetto realistico fu utilizzato un autentico occhio di vitello. Alla sua uscita parigina il film riscosse consensi unanimi negli ambienti culturali alternativi, tutti ne elogiarono la grande portata innovativa e rimase in cartellone per diversi mesi. Buñuel, fedele alla sua vena dissacrante, si limitò a dire che solo un imbecille poteva trovare interessante il suo film. Nondimeno trattasi di opera capitale e fondante per la storia della settima arte, un capolavoro sperimentale di grande valore storico che ha avuto enormi influenze sulla cinematografia a venire. Questa è la millesima recensione che pubblico in questo blog; mi sembrava giusto riportarlo e, non a caso, la scelta è caduta su un film di grande portata allegorica e di oscuro fascino onirico.

Voto:
voto: 5/5

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