giovedì 5 maggio 2016

Le lacrime amare di Petra von Kant (Die bitteren Tränen der Petra Von Kant, 1972) di Rainer Werner Fassbinder

Petra von Kant è un’affermata stilista di Brema, intelligente, raffinata, separata e con figlia adolescente. La donna vive con Marlene, la sua instancabile factotum a lei totalmente devota fino alle soglie del servilismo. Un giorno Petra conosce Karin, bella e povera, e s’innamora perdutamente di lei, venendo apparentemente ricambiata. Dopo lo sfiorire della passione iniziale il rapporto tra le due donne si trasforma e Karin rivela il suo volto crudele, trattando Petra con cinico sadismo, proprio come lei è solita fare con Marlene. Alla fine Petra sarà abbandonata da entrambe. Splendido dramma da camera di Fassbinder, tratto da una pièce teatrale composta da lui stesso e adattata fedelmente per il grande schermo con la medesima impostazione scenografica: la vicenda è ambientata in un’unica stanza ed è totalmente basata sui dialoghi tra le protagoniste. E’ il più doloroso e autobiografico tra i primi film del grande autore tedesco, una potente tragedia strindberghiana dalla messa in scena glaciale, un melodramma sadomasochistico e claustrofobico con echi alla Douglas Sirk e un modello magistrale su come trasporre un’opera teatrale per il cinema. Morboso, austero, agghiacciante, è una spietata messa a nudo dei rapporti di potere travestiti da relazioni erotiche, diretto con stile asciutto e interpretato con magnifica intensità. Fedele alla lezione hegeliana, secondo cui ogni rapporto tra due persone può essere letto in termini di servo/padrone, questo kammerspiel si genuflette al melodramma cercando di estrapolare l’oggettività presente nell’autobiografismo tipico dell’autore. La manieristica adesione all’estetica teatrale si esplicita attraverso la recitazione innaturale, le pose inverosimili delle attrici, il cromatismo esasperato, l’interferenza invasiva degli oggetti scenici. Tutto questo ha fatto anche parlare di apologia della messinscena, in cui la costante ricerca dell’artificio diventa lo strumento del regista per arrivare al vero, sfrondandolo di ogni velleità epica (in Fassbinder l’utilizzo forzato del kitsch ha sempre una chiara valenza antiepica). Il letto costantemente al centro del proscenio è una sorta di protagonista statico dell’opera; esso è il talamo, l’altare e il sepolcro dove nascono, esplodono e muoiono le passioni. La strutturale circolare delle vicende narrate (Petra alla fine si ritroverà nella situazione iniziale) relega i personaggi all’immobilismo esistenziale, perché la recita della vita è sempre ineluttabile nella poetica di Fassbinder. L’utilizzo geniale della profondità di campo consente l’ampliamento figurativo degli spazi scenici ristretti e riesce a rendere movimentata la non azione dell’opera, modificando di continuo la prospettiva geometrica a seconda della relazione tra i personaggi in scena. A questo suggestivo meccanismo di composizione introspettiva dello spazio, concorrono (nuovamente) gli oggetti che sono, al tempo stesso, simboli oppure ostacoli. Così una panca che si interpone tra le due amanti ne suggerisce la distanza interiore e l’impossibilità di una reale simbiosi affettiva, o uno specchio che riflette l’immagine demodé di Petra (novella Norma Desmond) nei suoi abbigliamenti pomposi, diventa il trucco registico per riuscire a filmare la coscienza fasulla della borghesia. E ancora: il sesso maschile esibito in bella mostra al centro dell’eccentrica tappezzeria intende sottolineare, con perfida ironia, la colpevole latitanza del maschio. Le tre interpreti principali sono Margit Carstensen, Hanna Schygulla e Irm Hermann. La bella colonna sonora, non originale, mescola arditamente i Platters e Giuseppe Verdi, offrendo suggestioni di surreale straniamento. Il film è uno degli indubbi capolavori di questo “autore tedesco che fa film tedeschi per un pubblico tedesco” (parole sue).

Voto:
voto: 5/5

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