sabato 27 settembre 2014

Dies Irae (Vredens Dag, 1943) di Carl Theodor Dreyer

Nella Danimarca del 1600 una storia d'amore proibita tra la giovane moglie di un pastore protestante e il di lui figlio porterà a tragiche conseguenze: la donna sarà accusata di stregoneria dalla bigotta comunità e condannata al rogo. La vicenda principale è solo uno spunto per mettere in scena una galleria di personaggi uno più ambiguo dell'altro, ognuno dei quali rappresenta un archetipo: il pastore che, sotto l'apparente facciata integerrima, nasconde un passato che di certo non brilla per rettitudine; la giovane moglie che, tradita nella fiducia riposta nel suo giovane amante, fa una scelta estrema che pone il suo personaggio in una dimensione "mistica"; una madre dispotica e rigida, che forse è la figura più coerente della storia, ed infine un figlio e amante che appare persino più subdolo del padre che lo ha generato. Il grande Maestro Dreyer, "padre" indiscusso del cinema nordico, con una regia cupa, quasi asfissiante nella sua rigidità, che trova il suo tripudio formale nelle tetre scenografie d'interni in cui si svolge gran parte della vicenda, realizza, con questo film "teatrale", uno dei massimi capolavori della cinematografia mondiale ed un apologo di austera bellezza sulla superstizione, sull'intolleranza e sul fanatismo religioso manipolato dal potere per interessi personali. Più che un atto d'accusa è un manifesto trionfale contro la prevaricazione ideologica, un rigoroso elogio della libertà umana ed un inno vitale alla libertà. Non è ovviamente un caso che questo capolavoro sia stato girato negli anni dell'occupazione nazista in Danimarca. Dal punto di vista stilistico Dreyer attua un'autentica rivoluzione, portando a totale compimento la sua estetica della "tensione che si crea nella calma", grazie alle atmosfere realistiche, agli ambienti angoscianti, al gioco espressionista di luci e ombre, ai silenzi spasmodici, ai primi piani insistiti per carpire le emozioni dallo sguardo o dai mutamenti del volto. Il mondo chiuso del film, appositamente ambientato tutto in lugubri interni, simboleggia la preclusione soffocante del fanatismo e tutte le ricostruzioni storiche, apparentemente rigorose, sono, in realtà, antinaturalistiche perchè soggiogate dal pensiero artistico del regista, in questo caso tirannico, che intende fornire il massimo risalto drammatico alla sua opera per aumentarne la densità eversiva e, quindi, la potenza della denuncia. Film colto, impegnativo, perfetto in forma e contenuto, ha sicuramente ispirato Bergman, erede naturale di Dreyer, ne Il settimo sigillo.

Voto:
voto: 5+/5

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