Sarah è una vedova sfiorita che trascina la sua esistenza tra un figlio tossico, amiche petulanti ed una patologica dipendenza dalla televisione, fino a quando la possibilità di apparire nel suo Tv show preferito ne ridesta gli istinti vitali, trascinandola su un pericoloso percorso di dimagrimento rapido a base di farmaci. Suo figlio Harry è uno sfaccendato, drogato, vagabondo che ama unicamente la "roba" e la sua ragazza, la sexy Marion, e che sogna, insieme al suo amico Tyrone, afroamericano con traumi infantili, di sfondare nel mondo dello spaccio per cambiar vita. Marion, innamorata di Harry e tossica anche lei, sogna di diventare una stilista, ma è costretta a vendere il suo corpo per procurarsi la droga. Dal romanzo omonimo di Hubert Selby, Aronofsky ha tratto un film crudo e crudele, che mostra, non senza compiacimento visivo, il lato oscuro dell'America drogata in cui la dipendenza è un fattore esistenziale, agghiacciante surrogato di valori scomparsi, chimera incantatrice di un'umanità alla deriva, disperata e degenere. Il cast è notevole: Ellen Burstyn, Jared Leto e Jennifer Connelly sono tutti bravi e "giusti" ed offrono interpretazioni di alta intensità drammatica. Lo stile è inquieto ed estroso: il montaggio frenetico, l'uso di tecniche estreme, come time-lapse e split screen, e l'uso espressivo ed immersivo delle musiche, tratteggiano un'estetica sperimentale, straniante e, a tratti, disturbante. Diviso in tre capitoli che corrispondo a tre stagioni dell'anno e della vita (Estate, Autunno, Inverno), è un tetro apologo sul disfacimento di un sogno insano, intriso di cinismo e di enfasi tragica che deborda nell'ultima parte, dando vita ad un triste tripudio di dolore e sofferenza, troppo esibita per non gridare alla "spettacolarizzazione". Dal punto di vista tecnico ed interpretativo è un film eccellente ed è altresì apprezzabile il suo valore "educativo": andrebbe infatti mostrato ai giovani come monito, scioccante e quindi efficace, contro le droghe, come già avvenne negli anni '80 con il celebre Christiane F. - Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino. Per molti, che forse hanno confuso l'oggetto della critica con la sua "esaltazione", è un cult, ma la mano pesante del viscerale Aronofsky si vede tutta nell'ultima parte, in cui la comprensibile (visto l'argomento) impostazione "a tesi" esplode in una retorica del tragico che appare programmaticamente artificiosa e, quindi, perde forza.
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