martedì 23 settembre 2014

Funny Games (Funny Games, 1997) di Michael Haneke

Una famiglia borghese benestante della mitteleuropa (marito, moglie e figlio piccolo) si reca in una casa sul lago per trascorrere le vacanze estive ma la loro quiete viene sconvolta dall'arrivo di due giovani sconosciuti, dall'aspetto curato e dai modi gentili, che con un pretesto entrano in casa, sequestrano i malcapitati e danno inizio ad un crudele "gioco" di sevizie e torture psicofisiche il cui scopo finale è quello di ucciderli tutti uno dopo l'altro, ma nel modo più lento possibile. Sarà l'inizio di un incubo allucinante per gli sfortunati coniugi e per lo spettatore. Magistrale trattato di cinema della crudeltà, insano, disturbante, indimenticabile e con tocchi inarrivabili di cinismo. Haneke è bravissimo nel giocare con i contrasti per aumentere l'effetto shock: tra l'aspetto rassicurante dei due squilibrati e le loro azioni, tra l'ironia con cui giocano con le vittime e la totale assenza di emozioni mentre le torturano, tra il candore dei loro abiti ed il rosso del sangue innocente, tra la messa in scena formale algida ed asettica, in cui tutte le scene di violenza avvengono fuori fuoco, e l'estrema durezza del contenuto, che sarebbe stato, altrimenti, insostenibile. La cosa che più sconcerta è la totale mancanza sia di morale che di movente dei due aguzzini, la loro crudeltà è ingiustificata, gratuita e, per questo, intollerabile. Il solo elemento che ci viene fatto capire di loro è l'assiduità seriale nell'attuazione del macabro "gioco", proprio come la morte che agisce a caso, senza preavviso e senza un perchè. L'idea di eliminare ogni possibile legame causa-effetto che potrebbe spiegare l'operato dei killer (come avviene nella maggioranza delle pellicole di questo tipo) è geniale quanto coraggiosa e dimostra che ci troviamo di fronte a qualcosa di ben più alto di un film "di genere". Questo film è violenza, più psicologica che esplicita, allo stato puro, senza catarsi o salvezza nè per le vittime nè per lo spettatore. Più che negli aspetti metaforici, indubbiamente presenti ma appena accennati, la forza di questo "home invasion" di chiaro stampo horror risiede nella sua ineluttabilità, nella totale assenza di speranza per le vittime di un "gioco" così insormontabile nella sua rigorosa ritualità, che alcuni ci hanno voluto vedere un riferimento all'Olocausto. Ma il maggior tocco di genio del glaciale regista austriaco è nella straniante scena centrale del telecomando, di matrice brechtiana, che dona all'opera un senso diverso: astratto, metafisico, assoluto, come il destino stesso che gioca con la vita dell'uomo, ad armi, evidentemente, troppo impari. In questa scena, che scompagina tutto, Haneke introduce un nuovo livello di complessità nell'opera attraverso il meta-cinema: da un lato la palese critica verso la società dello spettacolo che pretende altro sangue e, dall'altro, l'idiosincrasia generata fra la scelta di svelare la finzione scenica e la sensazione percepita dallo spettatore di assistere ad una violenza così disturbante che poco ha a che fare con la fiction. L'ammiccamento del mefistofelico Paul (egregiamente interpretato da Arno Frisch) allo spettatore è l'unica fugace concessione di "compiacimento", tra l'altro di matrice kubrickiana, che Haneke si concede nel "gioco". Nel 2007 lo stesso regista ne ha girato un remake americano "shot-by-shot" (tutto sommato inutile), utilizzando attori più famosi.

La frase:
"- Perché non ci uccidete subito?" 
"- Non dimentichi il valore dell'intrattenimento, così nessuno di noi si divertirebbe più"

Voto:
voto: 4,5/5

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