mercoledì 24 settembre 2014

Le vite degli altri (Das Leben der Anderen, 2006) di Florian Henckel von Donnersmarck

Splendida ricostruzione storica della Berlino est degli anni '80, quando il muro della vergogna era ancora in piedi, i regimi comunisti ancora forti e l'Europa ancora divisa in due blocchi opposti, ideologicamente lontani almeno nelle apparenze. L'esordiente Florian Henckel von Donnersmarck realizza, con questa intensa opera prima, un thriller straordinario ed una vivida testimonianza di quegli anni oscuri, in cui, se ci si trovava dalla parte "sbagliata", si viveva nell'incubo costante di essere spiati, denunciati, arrestati da un regime opprimente che bandiva ogni forma di libertà individuale che apparisse non in linea con il pensiero oligarchico del partito. Attraverso una storia di spionaggio, raccontata in modo classico con un perfetto meccanismo geometrico di costruzione di un patos sempre crescente, il regista realizza un film potente che tocca due corde profonde, e opposte, anche nello spettatore: la paura di essere spiati ed il voyeurismo di chi osserva, nell'ombra, le altrui vite per carpirne segreti, intimità e debolezze. Ma c'è anche molto altro in quest'opera magistrale che può esser letta in modi diversi a seconda del punto di vista: è un caustico pamphlet contro (tutte) le dittature, che intende dimostrare, riuscendoci, come il loro ipotetico apparato di forza si regga, in realtà, su basi deboli, pronte a traballare al primo vero scossone, perchè fondate sulla presunzione di un controllo totale delle idee che è impossibile da conseguire. Ma il film è anche un elogio accorato dell'Arte, la più nobile e alta forma d'espressione umana, eterna, universale, una scintilla divina che si accende in certi individui e che ha il potere di spezzare catene, abbattere barriere, elevando l'umanità al di sopra della propria stessa miseria. Sarà proprio l'arte ad aprire una breccia nella facciata impenetrabile dell'inquietante capitano Wiesler, un ligio burocrate del potere, interpretato da un grande Ulrich Mühe, il cui cambiamento simboleggia quello di un popolo e di una coscienza nazionale. E sarà ancora l'Arte il veicolo della dedica finale, in un epilogo che scalda il cuore e riempie di autentica emozione, senza il bisogno di alcuna enfasi ma con l'elegante compostezza dei grandi momenti. Pluripremiato in tutto il mondo, anche con l'Oscar al miglior film straniero, è indubbiamente una delle vette cinematografiche degli anni 2000. Da alcuni anni la Germania sta utilizzando il cinema per fare i conti col proprio doloroso passato; se i risultati sono questi bisogna augurarsi che la tendenza continui ancora a lungo.

Voto:
voto: 4,5/5

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