Un'attrice in difficoltà (Laura Dern) che cerca di ottenere la parte di protagonista in un film che sembra "maledetto", agghiaccianti visioni provenienti da un altrove indefinito di una donna che piange mentre guarda in televisione un'inquietante sitcom con dei conigli protagonisti. E ben presto il film si confonde con la vita, la realtà con la finzione, le persone con i personaggi, in un dedalo vorticoso di mondi parelleli, vite sovrapposte, possibili destini, abissi della mente. L'ultimo opus del grande regista di culto, David Lynch, è la summa, definitiva e radicale, della sua estetica dello straniamento e dell'incubo allucinato: un viaggio terminale (e di sola andata) nei baratri disturbanti dell'inconscio. Estremo ed astratto, geniale e visivamente imponente, sperimentale ed anti-narrativo, è una sorta di "masturbazione" artistica del Maestro del Montana, dedicata a se stesso ed ai suoi fans. Più che un film è un incubo, un lungo stream di sensazioni totalizzante e memorabile che stravolge, destruttura e ripensa dalle fondamenta la sintassi cinematografica, esaltando l'istante singolo piuttosto che il quadro d'insieme. Come sempre in Lynch è impossibile avere un approccio "tradizionale" al film e, meno che mai, mezze misure: per questo, ancora più che per i suoi precedenti, o lo si ama o lo si odia. Ma se ci lascia trasportare dalla forza delle immagini e ci si abbandona al flusso senza inibizioni, l'esperienza, come sempre, sarà indimenticabile. E definitiva, come questo suo ultimo capolavoro.
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