mercoledì 24 settembre 2014

Grand Budapest Hotel (The Grand Budapest Hotel, 2014) di Wes Anderson

Meraviglioso affresco, soave e malinconico, a tre livelli, incastonati l'uno nell'altro in un ingegnoso gioco di scatole cinesi: nel primo uno scrittore anziano ci parla del potere della narrazione e di come un suo romanzo, ovvero il film a cui stiamo assistendo, sia stato ispirato dal racconto di fatti realmente accaduti da un certo signor Zero. Nel secondo livello vediamo Zero che narra il racconto al giovane scrittore, durante una cena in un immenso albergo dell'est europeo, barocco e coloratissimo, ma semi deserto e di sua proprietà, il Grand Budapest Hotel. Il terzo livello (ovvero il corpo del film) è l'esposizione dei fatti da parte di Zero, che prendono vita in prima persona sullo schermo, a sua volta basati sulle memorie del concierge dell'albergo, il protagonista Mr. Gustave (Ralph Fiennes), uomo elegante ed efficiente, un gaudente eccentrico che oppone le sue raffinate buone maniere alla barbarie del mondo. Il bizzarro Wes Anderson, regista di grande talento, ci ha sempre regalato, nei suoi film, mondi meravigliosi ed improbabili, suggestivi e malinconici, popolati da personaggi teneri e stralunati, raffigurati con un'estetica vivace, autentica cifra stilistica dell'autore texano. Ed anche questo film, che è il suo migliore ed il più maturo, non fa eccezione. Il regista si concede anche il vezzo estetico di rappresentare in modo diverso ciascuno dei singoli livelli, a cominciare dal differente formato dello schermo (quello che, tecnicamente, si chiama "aspect ratio") che si riconfigura ogni volta di conseguenza, facendoci capire subito dove ci troviamo. Ma stavolta Anderson fa un passo in avanti e, ispirandosi a Maestri del passato come Lubitsch e Wilder, realizza una storia di ampio respiro, edificando un contesto storico europeo verosimile ma con le fondamenta ben salde nel suo universo fantastico, e ci parla d'avventura, d'amore, di razzismo, di guerra e di ingiustizie sociali, sempre con il consueto garbo che tende alla favola astratta. Il solito cast corale e sontuoso, con tutti i suoi "fedelissimi",  è al servizio di una storia intrisa di incanto e malinconia, dove, tra tanti personaggi, il vero protagonista è l'Hotel, simbolo decadente ed austero di una gloriosa età passata. Ma il cuore della storia, grande ma intima, risiede tutto nel rapporto tra un "padre" e un "figlio" (sebbene solo putativi) che è un inno alla tolleranza, alla gentilezza, ai sentimenti autentici che possono nascere malgrado le differenza di razza o di ceto sociale. E questo rapporto, che darà continuità alla vicenda attraverso i tre livelli detti prima, si incastona, a sua volta, nel reale intento del regista (che denota anche l'approccio colto alla base dell'opera), ovvero omaggiare il grande potere della narrazione, la sua magia, la sua arte, come magnifica testimonianza di eventi passati, probabilmente addolciti, magari abbelliti, ma resi eterni nonostante l'umana fugacità. In questo piccolo capolavoro, prezioso, denso di metafore e di momenti visionari di possente fascino, Anderson realizza, finalmente, la perfetta sintesi tra forma e contenuto, tra bello e profondo.

Voto:
voto: 4,5/5

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