Quattro personaggi per due storie disperate, al limite, come è, da sempre, il cinema di Almodóvar: Marco è un giornalista inquieto che ama Lidya, torera volitiva in evidente crisi sentimentale, che, dopo un tragico incidente sul lavoro finisce in coma. Benigno è un infermiere tenero e goffo, impeccabile nella sua professione, con vaghe tendenze omosessuali, che da quattro anni si prende cura, amandola, di Alicia, ballerina caduta in coma e ricoverata nel suo reparto. L'incontro tra Marco e Benigno, accomunati da un simile destino, è inevitabile. Ma se il primo resta rigidamente chiuso nel suo dolore, il secondo lo invita ad aprirsi, a dar voce al suo amore, a "parlare con lei", nonostante tutto. Una svolta imprevedibile e spiazzante cambierà drasticamente le sorti dei quattro, finendo per "sparigliare" le coppie. L'opus numero 14 del "ragazzaccio" castigliano è anche il suo film migliore, il suo capolavoro, sapientemente costruito sui paradossi, sul rovescio della medaglia, su una serie di situazioni estreme che solo il talento del regista riesce a rendere "credibili", accettabili, addirittura commoventi perchè intrise di profonda umanità. L'amore è, probabilmente, il più vitale dei sentimenti umani, è un tripudio di passioni, di sensazioni, di pensieri, di anime, di corpi, naturalmente vivi. Qui Almodóvar ribalta la concezione tradizionale, donando all'assunto del titolo la valenza di una nuova frontiera affettiva, che tende all'irrazionale e, quindi, al mistico: l'amore verso un corpo immoto al quale dedicarsi, con ostinata dedizione, per donare e donarsi, incondizionatamente, e stabilendo attraverso la parola, apparentemente unilaterale, un contatto sublime. Forte di una sceneggiatura formidabile dello stesso regista, premiata con l'Oscar, e di un cast ispirato, in cui spicca Javier Cámara nel difficile ruolo di Benigno, maschera buffa, tragica e compassionevole, questo film regala anche momenti di assoluta magia visionaria, come lo splendido inserto onirico in bianco e nero, che introduce magistralmente la svolta cruciale della storia che, grazie al tocco lieve di un "umanista" raffinato come Almodóvar, risulterà accettabile per il pubblico. E non è affatto un caso che il più dolcemente disperato dei film del grande regista spagnolo si apra e si chiuda in un teatro: in fondo cos'altro è la vita se non un continuo affannoso recitare sul proscenio del quotidiano ? Il finale aperto, ma promettente, induce sensazioni rassicuranti e l'applauso è d'obbligo per il talentuoso "enfant terrible" del cinema iberico.
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