venerdì 30 giugno 2023

Lo sconosciuto del lago (L'inconnu du lac, 2013) di Alain Guiraudie

Nel sud della Francia c'è un lago circondato da un fitto bosco che ogni estate diventa luogo di incontro per uomini alla ricerca di facili avventure omosessuali, che puntualmente avvengono appartandosi tra gli alberi della folta macchia. Franck è tra gli abitudinari del posto, fa il bagno nel lago e fa sesso con amanti occasionali, ma ha anche una relazione platonica con il mite Henri, che cerca solo un po' di quiete solitaria dopo il traumatico divorzio dalla moglie. Un giorno Franck mette gli occhi sul misterioso Michel, uomo prestante, nuotatore vigoroso e, a detta di molti, anche amante straordinario. Tra i due maschi nasce una storia di grande passione fisica, che per Franck si trasforma rapidamente in amore. Ma Henri lo mette in guardia, raccontandogli di avere visto con i suoi occhi Michel uccidere uno dei suoi amanti nel lago. Nonostante il pericolo Franck non riesce a fare a meno di Michel, anzi il desiderio che prova nei suoi confronti diventa ancora maggiore. Questo cupo thriller ambientato alla luce del sole, scritto e diretto con maestria da Alain Guiraudie, ha sconvolto il pubblico del 66° Festival di Cannes (dove ha partecipato in concorso vincendo due premi, tra cui quello alla regia), soprattutto per alcune sequenze di sesso esplicito omosessuale, provocando "scandalo" tra giornalisti e addetti ai lavori. In realtà la tematica del sesso, pur presente in abbondanza ma mai gratuitamente, è solo la superficie di un'opera estremamente inquietante che ci parla della forte connessione psicologica tra Eros e Thánatos, provocando profonde vertigini morali nello spettatore a causa della sua realistica veridicità. Quello che sconcerta davvero non sono, ovviamente, i nudi maschili o gli accoppiamenti randagi di natura gay, ma l'interpretazione psicoanalitica del comportamento del protagonista Franck, attratto dal pericolo e dalla morte perchè è proprio questo ad aumentare la sua eccitazione sessuale, offrendogli un coinvolgimento emotivo che non sarebbe possibile in assenza di questi fattori. Il regista è bravissimo a giocare sapientemente, e con drammaturgica abilità, su questi fattori, comportandosi come un osservatore distaccato che riporta i comportamenti dei suoi personaggi, senza mai giudicarli, ma lasciando a noi l'arduo compito di decodificarli, o, quanto meno, di innescare su di essi controverse riflessioni. E' innegabile che il film, girato con pochi mezzi e a bassissimo costo, avvince e disturba, mantenendo lo spettatore col fiato sospeso fino alla fine e provocandogli un'oscura fascinazione per la carica torbida dei suoi contenuti. Alcuni hanno addirittura azzardato (esagerando) che il film ha sul pubblico l'effetto che Michel ha su Franck. L'utilizzo metaforico di elementi archetipali come il bosco, il lago, la luce, il buio o il "lupo cattivo" completano il quadro d'insieme, rendendo questa pellicola un'esperienza coinvolgente molto difficile da dimenticare. Non è sicuramente un film per tutti, ma per gli amanti del cinema d'essai dalla sfumature underground è decisamente da non perdere.

Voto:
voto: 4/5

Tony Arzenta (Big Guns) (1973) di Duccio Tessari

Tony Arzenta è un killer professionista che lavora per una potente organizzazione mafiosa che ha ramificazioni estese tra l'Italia, la Francia e la Germania. Quando decide di smettere con la sua vita di assassino per dedicarsi interamente a sua moglie e suo figlio, i suoi capi non ci stanno e, siccome sa troppe cose, decidono di eliminarlo. Duccio Tessari, regista genovese molto attivo negli anni '60 e '70 e conosciuto principalmente per i western o per i thriller, si cimenta, con ottimi risultati, in questo crime cupo e violento dalle ambientazioni europee e con un solido cast internazionale, realizzando uno dei migliori noir del cinema di genere italiano. Già dalla scelta del protagonista, il divo francese Alain Delon che interpreta egregiamente uno degli anti-eroi tormentati che lo hanno reso celebre, si capisce che Tessari ambisce a dar vita ad un'opera dal respiro più ampio, che non guardi soltanto all'Italia ma ad uno scenario ben più vasto e complesso (le riprese si sono svolte a Milano, a Parigi, a Copenaghen, a Torino e in Sicilia). Costruendo l'intero film sulle spalle forti di Arzenta-Delon, l'autore mette in scena un cruento apologo sulla vendetta, sulla brutalità, sul tradimento e sull'onore (inteso secondo la nostalgica mentalità del vecchio crimine che gli esperti di polar conoscono perfettamente), mescolando scene di azione di grande spettacolarità, le angosce interiori del killer solitario inevitabilmente condannato alla perdizione dalle sue stesse azioni, l'idea ancestrale del male supremo da cui non esiste alcuna via di fuga, e ancora, evidenti suggestioni "esistenziali" dei crime francesi firmati da Jean-Pierre Melville o echi di estetizzazione della violenza che guardano al cinema di Sam Peckinpah. Dalla prima all'ultima sequenza la pellicola è attraversata dall'ombra silente della morte che accompagna il protagonista, una suggestione ben evidenziata dalla fotografia autunnale di Silvano Ippoliti. Al fianco di Delon vanno segnalati attori di grande esperienza (anche teatrale) tra cui Richard Conte, Umberto Orsini, Marc Porel, Giancarlo Sbragia e le intense Carla Gravina e Nicoletta Machiavelli. Distribuito dalla Titanus, ebbe un enorme successo di pubblico nel nostro paese, ma fu accolto in maniera più tiepida oltralpe. Alcuni addetti ai lavori mormorarono che i cugini francesi fossero un tantino "gelosi" che un film italiano, con Alain Delon protagonista, avesse eguagliato gli elevati standard del loro Melville.

Voto:
voto: 3,5/5

Amnèsia (2002) di Gabriele Salvatores

Sull'isola di Ibiza, nella calda estate del 2001, s'intrecciano le storie di alcuni personaggi: l'italiano Angelino, tenero pasticcione sempre indebitato, gestisce un bar sulla spiaggia insieme alla sua ragazza Alicia con cui sogna di poter creare una famiglia; quando si ritrova per caso tra le mani una valigetta piena di cocaina, crede che il destino gli abbia concesso l'occasione di "svoltare" che da sempre aspettava. Xavier è il capo della polizia dell'isola e deve combattere quotidianamente con suo figlio Jorge, scapestrato, ribelle e pieno di rabbia che, pur essendo molto dotato intellettualmente, spreca la sua vita tra droghe e amicizie pericolose, pur di ferire suo padre. Sandro è un produttore di film porno che gira a basso costo nella sua lussuosa villa e che riceve, improvvisamente, la visita di sua figlia Luce, giovane e bellissima, con cui ha sempre avuto un rapporto complicato a causa della sua assenza. La ragazza ignora il lavoro del padre e lui, notevolmente imbarazzato, cerca di non farglielo scoprire. Stravagante dramma estivo, con tocchi da commedia, venature crime e atmosfere dark, scritto e diretto da Gabriele Salvatores partendo da un soggetto ideato insieme ad Andrea Garello. Ambientato e girato interamente a Ibiza, perla spagnola delle Baleari che per tutti gli anni '80 rappresentò, nell'immaginario collettivo, un luogo ideale di trasgressione e di evasione, cerca di rinverdirne il "mito" arrivando un bel po' fuori tempo massimo, ma in realtà si riallaccia inevitabilmente alla tematica prediletta dell'autore napoletano: quella della fuga. In questo caso si parla di fuga dalle proprie responsabilità per vivere una vita da eterno Peter Pan, fuga dai propri conflitti familiari troppo a lungo interiormente covati e fuga da un paese (l'Italia) che non concede più spazio ai sognatori romantici che vogliono vivere alla giornata e con leggerezza. Storie diverse ma con un unico comune denominatore, a cui si aggiunge l'immancabile ambientazione "esotica" (altra cifra stilistica tipica del cinema di Salvatores) che contrasta con la cupezza del mondo interiore dei protagonisti che sono tutti dei perdenti, pur nelle loro peculiari differenze. Nonostante un buon cast con due fedelissimi del regista come Diego Abatantuono e Sergio Rubini (a cui si affiancano Martina Stella, Bebo Storti, Juanjo Puigcorbé, Rubén Ochandiano e Alessandra Martines) e l'espressiva fotografia "acida" di Italo Petriccione, il film risulta confuso, prevedibile, quasi stanco nel suo accumulo di situazioni già viste, una sorta di lavoro poco ispirato e poco convinto da parte del suo autore. Il segmento più vivace, intenso ed interessante è quello che riguarda la tormentata storia di Jorge e suo padre, con l'interpretazione isterica e viscerale del giovane Rubén Ochandiano. Le musiche originali sono state scritte dal bravo sassofonista Daniele Sepe.

Voto:
voto: 2,5/5

giovedì 29 giugno 2023

Elizabeth Harvest (2018) di Sebastian Gutierrez

Elizabeth è una ragazza giovane e bellissima che ha il sogno di trovare un uomo in grado di darle amore, sicurezza e protezione. Il suo desiderio sembra realizzarsi nel matrimonio con il maturo Henry, un ricco scienziato che la conduce nella sua splendida tenuta immersa nei boschi, una villa imponente e super tecnologica in cui vive insieme a due domestici, l'enigmatica Claire ed un ragazzo non vedente di nome Oliver. In questo ambiente elegante ma freddo Elizabeth sembra un corpo estraneo, ma il marito la rassicura e la vizia con mille attenzioni, tra cene prelibate, abiti lussuosi, ambienti sfarzosi, gioielli e quadri da collezione in bella mostra. Tutto sembra perfetto, eppure una strana sensazione di minaccia s'insinua nella mente della donna, che resta visibilmente sorpresa quando il marito le impedisce di entrare in una stanza misteriosa che lui definisce "off limits", chiedendole espressamente di non violare mai questa regola. Durante una prolungata assenza di Henry, partito per motivi di lavoro, Elizabeth si sveglia di notte con la tentazione di spiare all'interno della camera proibita. Cupo thriller fantascientifico dalle atmosfere horror, scritto e diretto dal venezuelano Sebastian Gutierrez e interpretato da Abbey Lee, Ciarán Hinds, Matthew Beard, Dylan Baker e Carla Gugino (attrice "feticcio" del regista). E' un film di suspense dal ritmo compassato e dai risvolti morbosi, una sorta di fiaba gotica hi-tech che rivisita con sinistra malia oscura l'antico racconto "Barbablù" di Charles Perrault, contaminandolo di moderne suggestioni pseudo-scientifiche e impaginandolo in un'estetica patinata e algida, dove tutto sembra sospeso in un angosciante loop onirico. L'opera introduce tra le righe una serie di elementi tipici del nostro tempo, come la prevaricazione sessuale, l'idea tutta maschile della donna come possesso, l'ossessione del controllo o il culto del bello, senza dimenticare il materialismo, l'egocentrismo e la mancanza di limiti morali nella sperimentazione scientifica. C'è effettivamente troppa carne al fuoco per una pellicola di questo tipo e, infatti, molte cose sono appena accennate, trattate con superficialità o risolte con semplicistiche scorciatoie narrative. Ma il film possiede un suo fascino inquietante e vale soprattutto per la sua ipnotica confezione visiva e per le ottime interpretazioni delle due protagoniste femminili, la Lee e la Gugino, che sanno regalarci più di un brivido sincero. In Italia non è mai stato distribuito, né in sala né in home video.

Voto:
voto: 3/5

Il maestro di Vigevano (1963) di Elio Petri

Antonio Mombelli fa il maestro elementare a Vigevano, ama il suo lavoro ed è orgoglioso di far parte del ceto intellettuale, accontentandosi dignitosamente di uno stipendio mediocre e di una vita semplice. Ma sua moglie Ada, frustrata e materialista, si lamenta di continuo della sua mancanza di ambizione, prova invidia per i concittadini più ricchi che lei considera dei "vincenti" ed angustia il mite Antonio per spingerlo a cambiare lavoro e tentare la strada dell'imprenditoria. Nonostante la sua riluttanza verso sotterfugi e compromessi, l'uomo si vede costretto ad accettare pur di accontentare la moglie, abbandona il suo sicuro incarico nella scuola e, con i soldi della liquidazione, apre un piccolo calzaturificio. Ma, dopo alcuni effimeri successi iniziali, dovrà fare i conti con una realtà sempre più difficile e deludente, con la quale il nostro non è attrezzato a competere. Questa tagliente commedia drammatica di Elio Petri, tratta dal romanzo omonimo di Lucio Mastronardi e scritta dal regista insieme ad Age & Scarpelli, è un apologo sarcastico sui malcostumi e il provincialismo dell'Italia del boom economico, di cui vengono messi alla berlina, con corrosiva lucidità, la mentalità meschina ed i vizi principali: corruzione, arrivismo, cinismo, avidità, ignoranza, furbizia, volgarità, conformismo, ossessione per l'arricchimento come status symbol di un modello preconfezionato di felicità. Forte della magnifica interpretazione di Alberto Sordi (in uno dei suoi personaggi più famosi e riusciti) e di un cast funzionale tra cui citiamo Claire Bloom e Piero Mazzarella, questo ironico atto d'accusa ai comportamenti deteriori dell'Italietta degli anni '60 rappresenta l'unica vera incursione del grande autore romano nel territorio della Commedia all'italiana, in cui dimostra di sapersi muovere con agile abilità, nonostante non ne padroneggi tutti i requisiti per indole, estetica e approccio. Molti hanno evidenziato, a ragione, una sorta di ideale filo conduttore tra il personaggio del maestro Mombelli e quello (memorabile) di Silvio Magnozzi, altro cavallo di battaglia dell'itinerario sordiano, interpretato da "Albertone" nel capolavoro di Dino Risi Una vita difficile (1961). Le musiche di Nino Rota sono un'altra nota di merito di questo film di amaro dileggio, che fa ridere e fa riflettere e che, metaforicamente, può essere visto come una sorta di canto del cigno di quel decoro umile e onesto ereditato dall'antica cultura contadina, definitivamente soffocato dalla "sirena" ammaliante del consumismo.

Voto:
voto: 3,5/5

Il commissario (1962) di Luigi Comencini

Dante Lombardozzi, giovane commissario ambizioso e zelante, indaga sulla morte eccellente di un politico democristiano, il professor Di Pietro, che secondo la versione ufficiale è stato investito dall'automobile guidata da un furfantello di mezza tacca, Armando Provetti, già noto alle forze dell'ordine e reo-confesso. Il caso sembra risolto in partenza, ma Lombardozzi, meticoloso e diffidente, trova degli elementi che non lo convincono e va avanti per la sua strada. Quello che scoprirà non piacerà a nessuno e lo costringerà a prendere una decisione molto difficile per la sua carriera. Gradevole commedia amarognola prodotta da Dino De Laurentiis, scritta dal duo Age e Scarpelli  e diretta con tocco felpato dall'esperto Luigi Comencini, con protagonista il mattatore Alberto Sordi in grande spolvero in un ruolo che gli calza a pennello: un funzionario di polizia scrupoloso e dai modi stravaganti, meno cinico rispetto alle abituali maschere da italiano medio del grande attore romano, ma combattuto tra senso del dovere, principi etici ed uno sfrenato carrierismo. Alla fine le sue scelte saranno drastiche, paradossali, ma non ingiuste da un punto di vista rigorosamente morale. Tra comicità e sarcasmo, il film traccia un triste bilancio in perdita della burocrazia italiana, dell'ipocrisia dei benpensanti, dei compromessi che molti servitori dello stato accettano pur di mantenere intatta la facciata pubblica e della vigliaccheria degli immancabili furbi, sempre pronti a calpestare regole e principi pur di farla franca. Non tutto gira alla perfezione, ad esempio gli attori delle "seconde linee" non sono tutti all'altezza di quelli principali e qualche svolta narrativa appare di strumentale forzatura; ma gli appassionati del celebre "Albertone" nazionale non potranno che gradire questa performance in equilibrio tra la sua verve proverbiale ed una più sobria misura interpretativa.

Voto:
voto: 3/5

Mio figlio Nerone (1956) di Steno

L'imperatore romano Nerone si trastulla nella sua residenza sul mare del golfo di Napoli tra esibizioni canore, amici fannulloni, lacchè compiacenti e la sua amante Poppea. Quando la sua austera madre Agrippina lo invita all'ordine, spingendolo verso una guerra nel freddo del nord Europa, Nerone medita di ucciderla per liberarsene definitivamente. Ma la vecchia donna è coriacea e previdente e riesce sempre a sfuggire a tutti i complotti orditi dal suo squilibrato figlio. Solo il saggio consigliere Seneca appare dotato del giusto raziocinio e della necessaria furbizia per tenere a freno i tanti colpi di testa dell'imperatore. Ma, ben presto, anche lui dovrà arrendersi alla follia dilagante di Nerone. Questa stravagante commedia comica dedicata alla controversa figura del tristemente noto imperatore incendiario, diretta da Stefano Vanzina (al secolo Steno) e con un ricco cast internazionale (Alberto Sordi, Vittorio De Sica, Gloria Swanson, Brigitte Bardot, Memmo Carotenuto, Giorgia Moll, Sandra Milo) è un film tanto divertente quanto straniante per il suo evidente squilibrio tra contenuto e forma. Infatti, dal punto di vista tecnico, è un'opera visivamente sontuosa, impaginata nella magia del CinemaScope e del Technicolor (come nella tradizione dei grandi kolossal storici hollywoodiani), sfarzosa nell'opulenza delle scenografie e dei costumi e impreziosita dalla fotografia e dagli effetti speciali curati dal grande Mario Bava. Di contro, il suo tono farsesco, con molti dialoghi sull'orlo della più banale buffoneria e diverse sequenze di ridicolo umorismo, stride apertamente (e forse volutamente) con la bellezza estetica della "cornice". Anche durante la lavorazione l'esperto Steno dovette faticare non poco per tenere a bada le bizze di una star hollywoodiana come Gloria Swanson, che non legò con nessun membro del cast, litigava di continuo con Sordi e riusciva ad avere un dialogo civile solo con Vittorio De Sica, il cui morbido carisma aiutò molto la tranquillità quotidiana sul set. Lo stesso Alberto Sordi ha sempre dichiarato, negli anni successivi, di non amare questo film e di non essere soddisfatto della sua performance. Ma nonostante questo la pellicola alla sua uscita, dopo un anonimo passaggio in anteprima al Festival di Venezia, ebbe un ottimo riscontro al botteghino e venne particolarmente apprezzata dal pubblico, risultando uno dei maggiori incassi italiani dell'anno 1956.

Voto:
voto: 3/5

La parmigiana (1963) di Antonio Pietrangeli

La bella Dora vive in un piccolo paese della provincia di Parma insieme allo zio prete, ma la vita in questo ambiente arretrato, sempliciotto e di ristrette vedute le è diventata intollerabile. Dopo aver sedotto un giovane seminarista fugge con lui a Rimini ed inizia una lunga serie di spostamenti e avventure sentimentali passando da un uomo all'altro. Quando alla fine sembra decidersi a tornare da Nino, che ritiene il meno peggio tra quelli che ha incontrato e per cui prova un certo sentimento, si rende conto che anche lui ha qualcosa da nascondere. Questa commedia drammatica sull'emancipazione femminile nell'Italia degli anni '60 è tratta dal racconto omonimo di Bruna Piatti, sceneggiato da Ruggero Maccari, Ettore Scola, Stefano Strucchi e Antonio Pietrangeli, che lo ha anche diretto con struggente intensità. E' un ritratto amaro e critico della società italiana del boom economico, di cui viene evidenziata l'ipocrisia, il perbenismo, il maschilismo e l'arretratezza culturale, senza risparmiare né la borghesia né gli ambienti provinciali più proletari e "ruspanti". Ma non è neanche corretto dire che questo sia un film femminista, perché alla giovane protagonista, che è una donna evidentemente troppo moderna e libera per i suoi tempi, le cose non vanno poi tanto meglio, per quanto il finale originale della pellicola sia volutamente ambiguo. Nella versione uscita in DVD nel 2015 e curata dalla Filmauro di Aurelio De Laurentiis è stato aggiunto un epilogo alternativo che allunga quello precedente di circa 3 minuti e che lascia intendere in maniera più chiara che il destino di Dora non sarà esattamente un modello di invidiabile rettitudine. Nel cast segnaliamo le buone interpretazioni di Catherine Spaak, Nino Manfredi, Lando Buzzanca, Didi Perego e Salvo Randone. Bella colonna sonora dello specialista Piero Piccioni a cui si aggiungono una serie di hits d'epoca quali "Io che amo solo te" di Sergio Endrigo e "Renato" cantata da Mina.

Voto:
voto: 3/5

mercoledì 28 giugno 2023

La viaccia (1961) di Mauro Bolognini

Nella campagna toscana di fine '800, in un antico podere denominato "la Viaccia", la morte del patriarca tenutario provoca una disputa tra i suoi figli per questioni di eredità. Il giovane Amerigo, figlio dell'erede che si è sempre occupato di mandare avanti l'azienda agricola di famiglia, va a stare dallo zio a Firenze e perde la testa per Bianca, una bella prostituta che lo porta a sperperare un patrimonio. La cosa viene presto a galla e in famiglia scoppia lo scandalo, con alcuni furbi che si approfittano della situazione, utilizzando il fattaccio per forzare a loro vantaggio la questione ereditaria. Amerigo è costretto a tornare a casa sua in campagna per placare le acque, ma non riesce a dimenticare il suo grande amore per il quale è disposto a mettere a rischio ogni cosa. Imponente trasposizione cinematografica del romanzo "L'eredità" di Mario Pratesi, scritto per il grande schermo da Vasco Pratolini, Pasquale Festa Campanile e Massimo Franciosa, e diretto con piglio sicuro da Mauro Bolognini, che ha realizzato un melodramma storico visivamente sopraffino, crepuscolare nei contenuti, ardente nei sentimenti e che non tradisce mai la fonte letteraria d'origine, anzi la esalta in una forma figurativa dal fascino pittorico. Presentato in concorso al Festival di Cannes divise in due la critica, rimanendo generalmente incompreso rispetto a quelli che sono i suoi meriti, tra cui non va dimenticato il superbo cast in cui tutti sono praticamente impeccabili: Jean-Paul Belmondo, Claudia Cardinale, Pietro Germi, Romolo Valli e Paola Pitagora. Molto riuscita anche la ricostruzione ambientale e linguistica, con la morbida fotografia in bianco e nero di Leonida Barboni che ci mostra una Firenze mai così distante dalle sue tipiche illustrazioni da cartolina. Il monologo in cui Amerigo (Belmondo) spiattella in faccia a suoi quanto siano miseri nella loro gretta avidità è un pezzo di grande cinema tutto da gustare.

Voto:
voto: 3,5/5