Marzio è uno sfaccendato ma abile truffatore romano, che gravita nell'ambiente del cinema e fa la bella vita con i soldi degli altri, tra macchine di lusso, donne affascinanti e i locali alla moda di via Veneto. Insieme al suo "segretario" Renato e a due aspiranti attricette di avvenente presenza, riesce a raggirare un industriale settentrionale appena sbarcato nella capitale, tanto ricco quanto provinciale, abbagliandolo con i piaceri della "dolce vita". Si fa prestare una grossa somma dall'ingenuo imprenditore, con la scusa di dover finanziare un film che porterà a tutti loro lauti guadagni. Ma qualcosa nel suo piano va storto. Commedia amara del pugliese Giuseppe Lipartiti, la terza consecutiva della sua scarna filmografia da volenteroso artigiano del nostro cinema di quegli anni. Il riferimento socio-culturale è ovviamente il capolavoro felliniano del 1960 che cambiò radicalmente la storia della settima arte (e non soltanto quella italiana), da cui l'autore prende le mosse per tracciare un bilancio in perdita di quel sottobosco di esaltati, libertini, artisti da due soldi, playboy, viveur, sedicenti incantatori e fascinosi malfattori che ronzavano intorno alle mille luci della via Veneto notturna per far parte del mito gaudente della "dolce vita" romana, spesso entrandovi furtivamente dalla "porta sul retro". Se le intenzioni di evidente satira di costume su quel decennio irripetibile sono lodevoli, bisogna anche riconoscere che Lipartiti non è di certo Fellini e i risultati sono innocuamente fiacchi. Il quadretto d'insieme è a tratti divertente, altre volte aspramente veritiero, ma non si esce mai dai canoni superficiali di un folclorismo facilone, più buffonesco che tagliente. Nel cast, ricco di caratteristi e di starlette, spiccano Umberto D'Orsi e una splendida Margaret Lee, che fa un breve cameo ma si mangia la scena con la luce abbagliante della sua bellezza. Alla sua uscita il film ebbe problemi con la censura e gli venne imposto un divieto ai minori di 14 anni per contenuti "sconvenienti". Consigliabile ai nostalgici di quel periodo o agli appassionati dei così detti attori "di spalla" del nostro cinema che, in certi casi, sono diventati di culto (vedi ad esempio Leopoldo Trieste).
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