martedì 27 giugno 2023

Sanctuary: Lui fa il gioco. Lei fa le regole. (Sanctuary, 2022) di Zachary Wigon

Hal è il giovane rampollo erede di un impero economico, diventato amministratore delegato di una catena di alberghi di lusso dopo la morte di suo padre. Nella suite di uno dei suoi hotel l'uomo riceve la misteriosa Rebecca, un'avvocatessa scaltra e sensuale che lo sottopone ad una sorta di test burocratico per saggiare le sue effettive capacità. A mano a mano che le domande della donna diventano sempre più pungenti e personali, il colloquio professionale assume la forma di un gioco psicologico di matrice masochistica in cui lei è la dominatrice e Hal la vittima. Ma le cose sono esattamente quelle che sembrano? Questo torbido thriller psicologico dai toni ambiguamente morbosi, terzo lungometraggio del newyorkese Zachary Wigon scritto da Micah Bloomberg, è un cupo kammerspiel che mantiene rigorosamente l'unità di tempo e di luogo e porta in scena l'atavica battaglia tra i sessi attraverso due soli personaggi principali, che però si scambiano continuamente i ruoli in un grottesco carosello di maschere, identità e colpi di scena. Interamente costruito sul labile confine tra verità e menzogna, il film utilizza la materia sessuale (che è predominante nelle situazioni e nei dialoghi) per offuscare la sua reale essenza di apologo sul potere, mettendone a nudo le voracità, le contraddizioni, la crudeltà intrinseca e le dinamiche conflittuali, giocando con lo spettatore in un continuo ribaltamento dei ruoli per confonderlo e spiazzarlo. Fin dal nome della femme fatale interpretata dalla bella Margaret Qualley (Rebecca) è evidente che il regista intenda ispirarsi all'immaginario hitchcockiano per quanto concerne le tematiche basilari connesse al film: il voyeurismo, l'identità, l'ambiguità, il rapporto di natura psico-sessuale e la sfuggente mutevolezza delle apparenze. Ma quasi tutto rimane nell'alveo delle buone intenzioni inespresse in un'opera altamente isterica, concitata, con delle interpretazioni enfatiche sempre sul filo dell'over-acting e con uno stile visivo che cerca spesso l'equilibrismo virtuoso nelle inquadrature, nei controcampi e nei primi piani espressionistici, ma lo fa in maniera del tutto autoreferenziale, con una foga manieristica che sfocia nell'artificioso. In Italia la pellicola è uscita con un anno di ritardo, distribuita in poche sale e con un sottotitolo aggiuntivo di patetica tendenza esplicativa, quasi insinuando, tra le righe, che il nostro pubblico sia costituito in gran parte da "sciocchi". Il titolo originale, secco ed enigmatico, è forse la miglior cosa dell'opera, specialmente quando se ne comprende il senso, più o meno a metà film.

Voto:
voto: 2,5/5

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