Si
comincia con la citazione di un antico proverbio orientale, “la vendetta è un piatto che va servito
freddo”, e poi subito a rotta di collo nel più feroce ed entusiasmante
prologo a cui abbiamo assistito nel nuovo millennio: una giovane donna in abito
da sposa imbrattata di sangue e con il volto tumefatto da un violento
pestaggio, passi di stivali su un pavimento in legno, una rivoltella, una voce
maschile che pronuncia un lapidario addio che suona come un epitaffio, la donna
che cerca di dire qualcosa, un colpo di pistola alla testa, schermo nero.
Inizia così il quarto film di Quentin Tarantino,
diviso in due parti, ovvero la summa definitiva delle sue ossessioni di
cinefilo adoratore del cinema underground, da lui sdoganato e portato alla
ribalta mondiale con una dignità artistica ed un estro visionario assolutamente
impensabili prima del suo avvento. In questo volume 1 ritroviamo tutti i marchi
di fabbrica dell’autore, a partire dalla divisione in capitoli (cinque in
totale: 2, La sposa imbrattata di sangue,
Le origini di O-Ren, L’uomo di Okinawa, Resa dei conti alla Casa delle Foglie
Blu), fino alla struttura in flashback, che si traduce in una narrazione
non lineare, ma aderente ai ricordi sconnessi della bionda protagonista,
passando per l’abituale citazionismo esasperato, rinvigorito da un estro
stilistico di sopraffino spessore. La vicenda narrata è quella di Bill,
carismatico leader di una gang di letali killer professionisti, da lui abilmente
addestrati con una severa disciplina che spazia dalle nobili arti giapponesi di
combattimento con la spada, alle arti marziali cinesi fino alle tecniche
occidentali di utilizzo delle armi da fuoco. Della banda di assassini di Bill fanno
parte suo fratello Bud e quattro donne, che adottano nomi di pericolosi
serpenti: Vernita Green (“Testa di rame”), nera e specialista di coltelli,
O-Ren Ishii (“Mocassino acquatico”), nippo-cinese esperta di spade, Elle Driver
(“Serpente montano della California”), spietata e con un occhio solo, e la
misteriosa protagonista del prologo (“Black mamba”), che in questo primo film
sarà sempre chiamata “la sposa”. Dalle vicende si intuisce che Bill, un tempo
amante della “sposa”, non ha accettato di buon grado la fine della loro
relazione, la notizia della sua gravidanza e dell’imminente matrimonio con un
altro uomo. Piombato ad inizio cerimonia insieme alla sua banda di killer, il
diabolico Bill compie una strage, uccidendo tutti gli invitati, facendo
picchiare a sangue la sua ex donna, per poi spararle lui stesso un colpo in
testa. Ma la “sposa” è, incredibilmente, sopravvissuta e, dopo un lungo periodo
di coma, si risveglia per dare inizio ad una spietata vendetta, eliminando uno
dopo l’altro i suoi carnefici e lasciando, ovviamente, Bill per ultimo.
L’obiettivo della letale “sposa”, una sorta di angelo della morte armata di
“katana”, è quello, imperativo, evidenziato dal titolo stesso del film. Questa
prima parte, che s’interrompe beffardamente sul più bello, è un sontuoso
omaggio ai b-movies ultraviolenti di Hong Kong ed alle pellicole di arti
marziali degli anni ’70 con Bruce Lee (la tutina gialla della “sposa”
nell’ultimo capitolo è un’evidente citazione de L’ultimo combattimento di Chen). Il risultato finale è un capolavoro
adrenalinico di violenza iperbolica, estetizzata con uno splendore formale
che vira nel fumetto, con un dinamismo plastico che assume il senso sacrale di
una danza di morte, con un’energia ipercinetica che rende lo spettatore
frastornato ed entusiasta, con un genio visionario che si traduce in immagini ammalianti,
tra le più potenti e ricercate viste al cinema negli ultimi anni, e con un
nugolo di mirabilie tecniche, a cominciare dall’autocensura in bianco e nero,
imposta dalla “sposa” con un semplice battito di ciglia, per mitigare l’enfasi
dello splatter, talmente copioso da trascendere nell’astrazione metaforica, che
intende celebrare il tripudio grafico della violenza, come un ancestrale rituale
pagano. Ma tutto il film è una mirabolante sinfonia magmatica di sequenze,
personaggi, dialoghi ed immagini straordinarie che inondano lo spettatore,
dimostrando un’assoluta cura del dettaglio, una maniacale cura del particolare
finalizzata all’equilibrio tra contenuto e forma, azione selvaggia e filosofia della
vendetta, sacro e profano, fumetto e cultura. L’unico evidente neo sono gli
inserti strumentali di ironia kitsch,
poco riusciti, che danno l’impressione di ridondanze forzate, introdotte per
dilatare la narrazione in modo da giustificare la divisione dell’opera in due
atti. Il manierismo dell’autore raggiunge qui il suo apice, fondendo insieme
ridondanza e genio in un possente flusso di meraviglie cinefile, che portano la
brutalità estrema dei b-movies sull’altare del grande cinema d’autore. Oltre
alle formidabili scene d’azione, coreografate con un gusto selvaggio e ricercato,
resta memorabile il capitolo Le origini
di O-Ren, girato come un anime
giapponese, un autentico film nel film di alta resa espressiva e tragica.
Immancabile la consueta menzione speciale alla superlativa colonna sonora, che
alterna composizioni originali ad altre utilizzate per l’occasione, pescando a
piene mani dalla filmografia underground e dalle ossessioni dell’autore. Nel
cast brilla Uma Thurman, protagonista assoluta, in una prova di grande impegno
fisico ed intensità emotiva, il serafico David Carradine nel ruolo di Bill, che
però in questo primo atto non si vede mai in volto, ed una rigenerata Daryl
Hannah, nei panni della letale Elle Driver. E’ il più alto e geniale monumento
ai b-movies mai realizzato,
ovviamente da non perdere.
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