domenica 15 febbraio 2015

Kill Bill vol. 1 (Kill Bill vol. 1, 2003) di Quentin Tarantino

Si comincia con la citazione di un antico proverbio orientale, “la vendetta è un piatto che va servito freddo”, e poi subito a rotta di collo nel più feroce ed entusiasmante prologo a cui abbiamo assistito nel nuovo millennio: una giovane donna in abito da sposa imbrattata di sangue e con il volto tumefatto da un violento pestaggio, passi di stivali su un pavimento in legno, una rivoltella, una voce maschile che pronuncia un lapidario addio che suona come un epitaffio, la donna che cerca di dire qualcosa, un colpo di pistola alla testa, schermo nero. Inizia così il quarto film di  Quentin Tarantino, diviso in due parti, ovvero la summa definitiva delle sue ossessioni di cinefilo adoratore del cinema underground, da lui sdoganato e portato alla ribalta mondiale con una dignità artistica ed un estro visionario assolutamente impensabili prima del suo avvento. In questo volume 1 ritroviamo tutti i marchi di fabbrica dell’autore, a partire dalla divisione in capitoli (cinque in totale: 2, La sposa imbrattata di sangue, Le origini di O-Ren, L’uomo di Okinawa, Resa dei conti alla Casa delle Foglie Blu), fino alla struttura in flashback, che si traduce in una narrazione non lineare, ma aderente ai ricordi sconnessi della bionda protagonista, passando per l’abituale citazionismo esasperato, rinvigorito da un estro stilistico di sopraffino spessore. La vicenda narrata è quella di Bill, carismatico leader di una gang di letali killer professionisti, da lui abilmente addestrati con una severa disciplina che spazia dalle nobili arti giapponesi di combattimento con la spada, alle arti marziali cinesi fino alle tecniche occidentali di utilizzo delle armi da fuoco. Della banda di assassini di Bill fanno parte suo fratello Bud e quattro donne, che adottano nomi di pericolosi serpenti: Vernita Green (“Testa di rame”), nera e specialista di coltelli, O-Ren Ishii (“Mocassino acquatico”), nippo-cinese esperta di spade, Elle Driver (“Serpente montano della California”), spietata e con un occhio solo, e la misteriosa protagonista del prologo (“Black mamba”), che in questo primo film sarà sempre chiamata “la sposa”. Dalle vicende si intuisce che Bill, un tempo amante della “sposa”, non ha accettato di buon grado la fine della loro relazione, la notizia della sua gravidanza e dell’imminente matrimonio con un altro uomo. Piombato ad inizio cerimonia insieme alla sua banda di killer, il diabolico Bill compie una strage, uccidendo tutti gli invitati, facendo picchiare a sangue la sua ex donna, per poi spararle lui stesso un colpo in testa. Ma la “sposa” è, incredibilmente, sopravvissuta e, dopo un lungo periodo di coma, si risveglia per dare inizio ad una spietata vendetta, eliminando uno dopo l’altro i suoi carnefici e lasciando, ovviamente, Bill per ultimo. L’obiettivo della letale “sposa”, una sorta di angelo della morte armata di “katana”, è quello, imperativo, evidenziato dal titolo stesso del film. Questa prima parte, che s’interrompe beffardamente sul più bello, è un sontuoso omaggio ai b-movies ultraviolenti di Hong Kong ed alle pellicole di arti marziali degli anni ’70 con Bruce Lee (la tutina gialla della “sposa” nell’ultimo capitolo è un’evidente citazione de L’ultimo combattimento di Chen). Il risultato finale è un capolavoro adrenalinico di violenza iperbolica, estetizzata con uno splendore formale che vira nel fumetto, con un dinamismo plastico che assume il senso sacrale di una danza di morte, con un’energia ipercinetica che rende lo spettatore frastornato ed entusiasta, con un genio visionario che si traduce in immagini ammalianti, tra le più potenti e ricercate viste al cinema negli ultimi anni, e con un nugolo di mirabilie tecniche, a cominciare dall’autocensura in bianco e nero, imposta dalla “sposa” con un semplice battito di ciglia, per mitigare l’enfasi dello splatter, talmente copioso da trascendere nell’astrazione metaforica, che intende celebrare il tripudio grafico della violenza, come un ancestrale rituale pagano. Ma tutto il film è una mirabolante sinfonia magmatica di sequenze, personaggi, dialoghi ed immagini straordinarie che inondano lo spettatore, dimostrando un’assoluta cura del dettaglio, una maniacale cura del particolare finalizzata all’equilibrio tra contenuto e forma, azione selvaggia e filosofia della vendetta, sacro e profano, fumetto e cultura. L’unico evidente neo sono gli inserti strumentali di ironia kitsch, poco riusciti, che danno l’impressione di ridondanze forzate, introdotte per dilatare la narrazione in modo da giustificare la divisione dell’opera in due atti. Il manierismo dell’autore raggiunge qui il suo apice, fondendo insieme ridondanza e genio in un possente flusso di meraviglie cinefile, che portano la brutalità estrema dei b-movies sull’altare del grande cinema d’autore. Oltre alle formidabili scene d’azione, coreografate con un gusto selvaggio e ricercato, resta memorabile il capitolo Le origini di O-Ren, girato come un anime giapponese, un autentico film nel film di alta resa espressiva e tragica. Immancabile la consueta menzione speciale alla superlativa colonna sonora, che alterna composizioni originali ad altre utilizzate per l’occasione, pescando a piene mani dalla filmografia underground e dalle ossessioni dell’autore. Nel cast brilla Uma Thurman, protagonista assoluta, in una prova di grande impegno fisico ed intensità emotiva, il serafico David Carradine nel ruolo di Bill, che però in questo primo atto non si vede mai in volto, ed una rigenerata Daryl Hannah, nei panni della letale Elle Driver. E’ il più alto e geniale monumento ai b-movies mai realizzato, ovviamente da non perdere.

Voto:
voto: 4,5/5

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