martedì 10 febbraio 2015

Il pianista (The Pianist, 2002) di Roman Polanski

Varsavia, 1939, dopo l’occupazione nazista: le leggi razziali hitleriane portano a misure sempre più restrittive e disumane nei confronti degli ebrei: la discriminazione, le limitazioni, l’obbligo di portare la stella di Davide sul braccio, la creazione del famigerato ghetto, le deportazioni, lo sterminio. Il pianista Wladyslaw Szpilman, ebreo polacco di grande talento, riesce a sfuggire ai rastrellamenti delle SS e sopravvive nascondendosi nel ghetto, affamato, umiliato, disperato, assistendo ad orrori indicibili, violenze, soprusi, omicidi efferati. Un ufficiale nazista, amante della sua musica, lo aiuta a sopravvivere fino all’arrivo dell’Armata Rossa, che spezzerà le catene del giogo nazista. Ma niente sarà mai più come prima per l’artista e l’uomo Szpilman, spezzato nell’animo dall’orrore dell’olocausto. Sul doloroso tema della Shoah è stato detto tanto, forse tutto, ma, come si dice in questi casi, non è mai abbastanza. Era inevitabile che, prima o poi, un autore come Polanski, polacco, ebreo e testimone diretto di quegli eventi tragici da cui si è salvato per miracolo, si confrontasse con l’argomento, offrendoci la sua visione dell’olocausto del popolo ebraico. Adattando il romanzo di memorie autobiografiche del vero Szpilman, e rifacendosi in parte a ricordi personali della sua traumatica infanzia, l’autore ha tratto un film asciutto, calibrato, terribile, attonito come il suo splendido protagonista, mirabilmente interpretato da uno straordinario Adrien Brody, di fronte all’apocalisse che la Storia ha riservato alle vittime innocenti di una lucida follia ideologica, che parte da molto lontano e che non è un’esclusiva germanica. Lo sguardo del regista è intimo, partecipe, “nudo” come il suo Szpilman, privato di ogni dignità e distrutto nell’animo di fronte a tanta barbarie. La prima parte dell’opera ci immerge nel brutale quotidiano del ghetto, senza risparmiarci nulla, senza nasconderci le aberrazioni, la violenza ed il sangue, sebbene non vi sia mai morbosità o eccesso gratuito, ma solo pudica costernazione dal parte di Polanski. Nella seconda veniamo proiettati nel mondo intimo di Szpilman, il film diventa appartato, alienato, nascosto, proprio come lo spaurito protagonista, maschera triste di un’immane tragedia storica, che vive come un topo, in lerci angoli oscuri, nel più infimo degrado, cercando di sfuggire all’orrore del mondo esterno. La parte finale è quella più canonica, non esente da retorica nel rapporto “artistico” con l’ufficiale nazista, che intende suggerire l’idea, affascinante ma a sospetto di idealismo, che l’arte possa trionfare, sempre e comunque, sul male, sulla guerra, sull’orrore. Le terribili immagini di distruzione urbana dell’epilogo sono sconvolgenti e si riflettono perfettamente nel volto emaciato del protagonista, a cui Brody conferisce egregiamente il sembiante di uomo devastato, l’incarnazione del dolore e della sofferenza. Seppure non aggiunga nulla di nuovo, artisticamente parlando, alla materia olocausto, è un’altra sentita testimonianza, rigorosa e pregnante, indubbiamente importante perché realizzata da un grande autore. Apprezzato da pubblico e critica, ha fatto incetta di premi: Palma d’Oro al Festival di Cannes, con qualche contestazione, e tre premi Oscar: regia, sceneggiatura e Adrien Brody intenso protagonista.

Voto:
voto: 4/5

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