lunedì 9 febbraio 2015

The Artist (The Artist, 2011) di Michel Hazanavicius

Hollywood, anni ’20: l’attore George Valentin è un divo del cinema muto, amato dal pubblico per i suoi ruoli di eroe avventuroso e romantico. Un giorno l’intraprendente Peppy Miller, aspirante attrice in cerca di successo, si fa fotografare abbracciata a lui da una nota rivista di spettacolo attirando così l’attenzione mediatica su di lei e guadagnandosi la partecipazione a numerose pellicole. Con l’avvento del sonoro i due attori avranno percorsi inversi: l’audace Peppy diventerà una stella luminosa ed acclamata del firmamento hollywoodiano, mentre George verrà dimenticato da tutti, finendo sul lastrico, disperato, prigioniero dei ricordi e con il suo fedele cane come unico compagno. Dopo aver bruciato tutte le sue vecchie pellicole e tentato il suicidio, George sarà aiutato proprio da Peppy, che da sempre prova per lui una sorta di amore mista a gratitudine. La donna gli propone un duetto in un musical e fa valere tutto il suo peso divistico per convincere i produttori. Clamorosa scommessa, vinta, da Hazanavicius e dal cinema francese: riportare in vita, nell’era degli effetti speciali, della computer grafica e del 3D, il cinema delle origini, ovvero un film in bianco e nero, “muto” (con le sole musiche e le battute dei personaggi scritte in didascalie) ed ambientato in quel periodo. L’ardita operazione non è solo formale, nostalgica e filologica, ma allegorica e metacinematografica, perché la vicenda narrata nel film racconta l’analogo di quello che l’opera intende rappresentare oggi: la rapida decadenza del cinema “vecchio” nei confronti del “nuovo”, il senso effimero del successo che, come arriva in fretta, può svanire altrettanto in fretta e la totale mancanza di “gratitudine” di un sistema fondato sul profitto piuttosto che sull’arte. Quello che succede a Valentin nel film si sovrappone a quello che è successo, oggi, al cinema classico: dimenticato dal pubblico perché soppiantato dai nuovi generi più accattivanti nell’aspetto, che hanno rimpiazzato la qualità e l’anima con l’azione e gli effetti speciali. Con evidente furbizia, ma anche con indubbia bravura, il regista mette in scena una storia semplice ma accattivante, con delle immagini eleganti che rimandano all’atmosfera dei tempi, un gusto retrò intriso di malinconia e due attori bravissimi (Jean Dujardin e Bérénice Bejo) che, con una straordinaria capacità comunicativa basata su espressioni e movimenti del corpo, “bucano” lo schermo ogni volta che sono in scena. Non esente da quella stessa ruffianeria che intende criticare, pedantemente calligrafico nel trasmettere emozioni tramite stereotipi collaudati ed a forte sospetto di manierismo stilistico finalizzato al largo consenso, ha però l’indubbio merito di avere riacceso i riflettori sui reali fondamenti del cinema, comuni a tutte le epoche: sceneggiatura, regia e recitazione. Premiato con cinque Oscar “miracolosi” (migliori film, regia, Dujardin protagonista, costumi e colonna sonora), ha dimostrato che il cinema classico non è mai completamente morto nei gusti del pubblico e che i cambiamenti di costumi non inficiano la fruizione di sentimenti universali ed eterni. In questo caso, ben venga la “furbizia” e onore al merito al coraggio dimostrato dai francesi. Il cinema italiano dovrebbe prendere esempio e fare una sana autocritica costruttiva.

Voto:
voto: 3,5/5

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